
Le tre torri di CityLife a Milano con la 'corona' rossa accasciata sulla vetta del grattacielo Generali
Milano – “Io, i tre grattacieli di CityLife, li ho sempre definiti 'i tri ciucc’ perché mi suggeriscono l’immagine di tre amici ubriachi”. Esordisce così Gianni Biondillo, scrittore e architetto ‘camminatore’ tra strade e palazzi meneghini riferendosi al caso del grattacielo Hadid, lo Storto. “È brillo davvero. Tanto che sta perdendo pure il cappello”. Se ne sono accorti subito i milanesi, lunedì mattina, mentre il sole già annunciava un’altra giornata rovente e l’insegna con la scritta ‘Generali’ si afflosciava pericolosamente trascinando verso il basso anche una mania che negli ultimi anni ha preso sempre più piede: quella di collocare un marchio, un nome, in cima a una torre. Possibilmente la più alta.
“Dove a competere non sono più le nobili famiglie come in epoca medievale ma i grandi della finanza, chi detiene il potere immobiliare, chi fa soldi con soldi. E questa è una metafora potente di una città che sta cadendo un po’ a pezzi. Una metafora talmente evidente da trasformarsi in realtà con un’insegna che cede”, riflette lo scrittore milanese Alessandro Robecchi che spesso ambienta i suoi romanzi nella metropoli. Possibilmente la torre più alta, si diceva. Ma nella scelta guida anche il luogo in cui si colloca. E la particolarità.
La torre Hadid, inaugurata ufficialmente il 9 aprile 2019, che prende il nome dalla sua progettista, l’architetta anglo-irachena Zaha Hadid, è la seconda per altezza nel progetto CityLife – dopo il Dritto Isozaki – e ha conquistato il secondo posto agli Emporis Skyscraper Award nel 2016. Colpisce la sua stravaganza in anima di calcestruzzo, quella torsione che si attenua salendo, sfidando la gravità fino alla cima, a 177 metri d’altezza che diventano 192 aggiungendo i 15 dell’insegna Generali. Quarantaquattro piani in tutto, caratterizzati anche da efficienza energetica certificata Leed Platinum grazie a soluzioni green e tecniche d’avanguardia.
Un’eccellenza che però ora fa i conti con lo smacco del vessillo piegato, che impatta sullo skyline di CityLife generato dalle tre torri – del trio fa parte il Curvo di Libeskind –, tra i simboli della nuova Milano e volto del complesso residenziale e commerciale nato sulle ceneri della ex Fiera Campionaria. Un’area di 255mila metri quadri riconvertita con spazi commerciali, percorsi ciclopedonali, parcheggi interrati, un parco pubblico di 170mila metri quadri, una nuova fermata della metropolitana. Un’opera che ha portato con sé, tra le costruzioni iconiche, non solo i grattacieli ma anche le residenze progettate da architetti di fama mondiale come gli stessi Zaha Hadid e Daniel Libeskind.
Un quartiere esclusivo, di lusso, che è stato dimora dei Ferragnez, i quali avevano scelto un attico diventato poi casa dell’attaccante dell’Inter Marcus Thuram. Tra i residenti, pure i calciatori Lautaro Martinez, Nicolò Barella e Samir Handanovic. Ma anche Michelle Hunziker, Federico Marchetti e Giovanna Civitillo. Hanno scelto quella che è diventata una delle zone più esclusive della città, in cui il prezzo medio degli immobili residenziali in vendita, stando a quanto risulta al Giorno, si aggira intorno ai 6.927 euro al metro quadro, variando tra i 7mila e i 14mila euro a seconda della tipologia, della posizione e delle caratteristiche dell’immobile.
E ‘prendere casa’ in una torre di pregio è diventato desiderio dei marchi, non solo a CityLife. “Ma se i grattacieli hanno una loro eleganza architettonica, con l’insegna in alto diventano pali di un cartello pubblicitario e questo mi sconforta – dice Biondillo –. Anche in passato, i grattacieli erano case di aziende, penso alla Torre Galfa o al Pirellone, che però non sentivano la necessità di mettere il nome. È la sconfitta dell’architettura, piegata dalla logica da centro commerciale. Come se l’edificio fosse scatolame non destinato a durare nei secoli. Con un’insegna che non è solida, che dà l’idea di qualcosa di smontabile. Il biglietto da visita di un’assicurazione che non riesce ad assicurare sé stessa”.
La mania del ‘nome esposto’, “peraltro, la trovo di una certa volgarità – conclude Robecchi –. A New York ammiriamo il Chrysler Building. Ma non c’è nessun nome sopra. A Milano è come se si volesse marchiare a fuoco la città per ostentare un potere. Ma è un’offesa per la gente comune, in una città che si sta ‘londrizzando’, con prezzi sempre più londinesi ma in cui gli stipendi restano italiani”.