Caso Alessia Pifferi, le psicologhe indagate per favoreggiamento non rispondono al pm

La 38enne è accusata di aver fatto morire di stenti la figlia Diana di 18 mesi. In questa tranche di indagine si ipotizza una “manipolazione” da parte delle due professioniste per aiutare l’imputata ad ottenere la perizia psichiatrica

Alessia Pifferi con il suo avvocato

Alessia Pifferi con il suo avvocato

Milano, 4 aprile 2024 – Caso Alessia Pifferi, la mamma di 38 anni accusata di aver fatto morire di stenti la figlia Diana di 18 mesi, nel luglio 2022: oggi è il giorno dell’interrogatorio di due psicologhe indagate per falso e favoreggiamento dalla Procura di Milano. Le due professioniste sono state iscritte più di recente nel registro degli indagati, dove figurano già altre due colleghe e l'avvocatessa Alessia Pontenani.

Questa mattina, una delle due psicologhe ha scelto di non rispondere alle domande del pm Francesco de Tommasi. E la stessa scelta è stata fatta dalla collega per l'altra audizione fissata nel pomeriggio. Anche le altre due professioniste non avevano risposto nei mesi scorsi.

La tranche di indagine, sempre coordinata dal pm Francesco De Tommasi, ipotizza una “manipolazione” per aiutare Pifferi ad ottenere la perizia psichiatrica e corre a fianco al processo in corso, che proseguirà il 12 aprile. Intanto, la difesa di Pifferi, con la legale Pontenani, ha raccolto documenti scolastici che dimostrerebbero, a suo dire, che la donna, quando era alle scuole medie, aveva l'insegnante di sostegno ed era portatrice di handicap. Nella prossima udienza, prevista per la discussione delle parti, il difensore punterà a chiedere ai giudici di integrare la perizia, che ha stabilito che la 38enne era capace di intendere e volere.

Le psicologhe indagate

In totale sono quattro le psicologhe iscritte nel registro degli indagati: due lavoravano in carcere a San Vittore, un'altra avrebbe alternato il lavoro all'Azienda socio sanitaria territoriale Santi Paolo e Carlo con le ore di servizio in carcere, la quale invece sarebbe esterna all'istituto penitenziario.

“Manipolato il test di Weis”

Stando a quanto ricostruito dal pubblico ministero De Tommasi, la psicologa che lavora tra l'Asst Santi Paolo e Carlo e San Vittore avrebbe predisposto “i relativi protocolli con i punteggi già inseriti nella somministrazione del “test di Wais” che servì, secondo l'accusa, per segnalare un grave deficit cognitivo della 38enne e per farle ottenere la perizia psichiatrica. Perizia che, poi, nel processo in corso ha stabilito che l'imputata, quando lasciò morire di fame e di sete la figlia Diana di quasi un anno e mezzo, era capace di intendere e volere. 

La psicologa avrebbe preso parte a quel test, che per il pm e i suoi consulenti non poteva essere effettuato e non aveva valenza scientifica, come messo nero su bianco pure dal perito nel processo. E avrebbe redatto, assieme all'altra (non presente al test), la “relazione del 3 maggio 2023”. Relazione, però, “materialmente” firmata, poi, da un'altra delle due professioniste già indagate, come emerso nei mesi scorsi. Una relazione che, tra l'altro, sarebbe stata anche modificata e revisionata rispetto alla “versione originaria”, pure “'cambiando' alcuni grafici”.  La relazione sul test di Wais, si legge ancora negli atti, è stata firmata anche dall'altra psicologa già indagata da tempo, la quale, però, “era assente anche in occasione della somministrazione del test”. 

“Un deficit grave”

Le quattro psicologhe avrebbero così attestato che Pifferi “aveva un quoziente intellettivo pari a 40 e quindi un deficit grave, al limite inferiore di questo livello (pertanto tra grave e gravissimo)'”. Gli esiti del test, ha scritto il pm, “erano incompatibili con le caratteristiche psichiche effettive della detenuta, per come emergenti anche dagli stessi colloqui intercorsi in carcere”, colloqui “anch'essi falsamente annotati nel diario clinico, con riferimento ai presupposti del 'monitoraggio' a cui la Pifferi veniva sottoposta, in realtà inesistenti giacché la donna non era un soggetto a rischio di atti anticonservativi”. Due delle psicologhe, in particolare, avrebbero portato avanti una “vera e propria attività di consulenza difensiva”, mentre l'imputata era “lucida” e “determinata”. E hanno lavorato per fornire “una base documentale che le permettesse di richiedere e ottenere in giudizio, eventualmente con il filtro di un'ulteriore consulenza di parte, la tanto agognata perizia psichiatrica”.