
La comparazione tra l'immagine ingrandita del palmo destro di Andrea Sempio e quella dell'impronta 33
Garlasco (Pavia) – È il reperto numero 33. Un cartellino bianco appiccicato al muro, una freccia stampata in nero e le due cifre, scritte a mano in rosso. Comincia così, la mattina del 21 agosto 2007, la vicenda dell’impronta papillare, la manata sulla parete delle scale della taverna di casa Poggi, che oggi la Procura di Pavia attribuisce ad Andrea Sempio. Quel giorno i militari del Ris spargono sulla superficie bianca del muro una soluzione spray di ninidrina. La sostanza è un reagente, che si lega agli amminoacidi e colora di un violetto brillante tracce invisibili.

L’analisi
Otto giorni dopo, le tute bianche rientrano nella villetta di via Pascoli e catalogano i segni sul muro. Fra questi, sulla seconda parete della scala al termine della quale il cadavere era riverso nel sangue, c’è l’impronta di una mano destra: la parte esterna del palmo, l’inizio delle falangi delle due dita. Passano altri sei giorni, e gli analisti del Ris stabiliscono che fare dell’impronta. Una parte, quella superiore, dove non si riconoscono le “creste“, il tipico disegno della pelle delle mani sul polpastrello e sul palmo, viene asportata con un bisturi sterile e avviata al laboratorio.
Lì, il reperto viene sottoposto al combur test, un esame con un reagente che si colora di verde in presenza di emoglobina, ovvero del ferro contenuto nei globuli rossi del sangue. Il risultato è dubbio. E i Ris proseguono con un secondo esame: l’Obti test, un ulteriore reagente che dà meno casi di falsi positivi, perché usa un anticorpo specifico dell’emoglobina. L’esito è negativo.

Il risultato
Quell’impronta non è lasciata dal sangue, quindi non è possibile attribuirla in automatico all’assassino. Del resto, sul muro di fronte c’è l’impronta, ugualmente repertata, del pollice di Marco Poggi, fratello della vittima, che era in Trentino il giorno del delitto. I carabinieri di Milano, nel 2020, sono invece convinti che sia “logico-fattuale che l’impronta sulla parete delle scale appartenga all’assassino”. Escludono che sia di Chiara Poggi, ma non spiegano, almeno in quell’informativa, perché sia del killer.
Resta da tentare, però, di dare un nome a chi ha lasciato la manata. Ai Ris nel 2007 rimane l’immagine dell’impronta, fotografata digitalmente, che mostra nel lembo inferiore sinistro le caratteristiche “creste“. Si vedono a occhio nudo. Allora, però, tutti concordano: non è possibile attribuirle a nessuno. Non considerano sia possibile neppure i carabinieri che scrivono nel 2020. Ma la Procura di Pavia, che riapre per la seconda volta l’inchiesta a carico di Andrea Sempio, questa volta affida al tenente colonnello Gianpaolo Iuliano e a Nicola Caprioli una consulenza di parte, in cui, con nuovi metodi 15 elementi caratteristici di quella manata si ritengono coincidere con quella di Sempio.
Diverso il caso dell’altra impronta “non giuridicamente utile”, repertata il 17 agosto 2007, quattro giorni dopo il delitto, sulla “parte interna della porta di ingresso”. Viene evidenziata con la luce ultravioletta, fotografata e catalogata col numero 10. “Una mano sporca”, per i militari. Quell’impronta, nel 2007, ha solo 8 punti caratteristici da comparare. Pochi per attribuirla. E quel numero, a differenza della manata, non è aumentato neppure oggi.