
Stefano Nazzi
Milano – Milano Calibro 9. Come nel capolavoro di Ferdinando Di Leo. Che all’epoca (anni ’70) la città aveva una percentuale di omicidi che neanche a Medellín: 150 all’anno. Periodo complesso. Che Stefano Nazzi ha indagato per Mondadori in “Canti di guerra”. Una narrazione nera. Nerissima. Come d’abitudine per il giornalista del podcast “Indagini“. Un racconto segnato dalle figure di Francis Turatello, Vallanzasca, Angelo Epaminonda. Il 5 giugno al Piccolo Teatro Strehler in forma di reading, nella prima edizione del Milano Film Fest. Una città a mano armata. A cui il nuovo festival dedica un focus con retrospettiva sui poliziottieschi e masterclass dei Manetti Bros. Stracult.
Nazzi, com’era Milano all’epoca?
“Più cupa, grigia. Una città diversissima da oggi, in cui bande criminali agivano alla luce del sole, in maniera violenta. Erano figure presenti, invasive, che fuggivano dalla polizia ma non facevano nulla per nascondersi, con sparatorie in mezzo alla strada e bische ovunque”.
Si creò una certa fascinazione intorno alla mala?
“È un discorso che vale per Vallanzasca: bello, arrogante, insofferente a qualsiasi autorità, appariva coraggioso, ribelle. Nonostante poi le sua dinamiche fossero puramente criminali. La motivazione era sempre e comunque il denaro. La gente fu colpita dalle sue evasioni e lui rilasciava continue interviste. Un narcisista assoluto, adorava farsi ammirare”.
Non era il solo.
“Turatello girava in pelliccia, esibiva il potere. Fu il primo a creare un impero del crimine, aveva una visione più imprenditoriale, per così dire”.
Fu testimone delle nozze in carcere di Vallanzasca.
“Episodio incredibile. Si fecero la guerra a lungo, si sparavano con i mitra in via Mac Mahon. Poi finirono dentro insieme e iniziarono una trattativa di pace come se fossero due superpotenze. Per suggellare l’accordo, Turatello propose a Vallanzasca di sposarsi, che lui sarebbe stato testimone e avrebbero avuto la prima pagina di Novella2000. In realtà aveva bisogno di nuovi alleati, perché fuori era sotto attacco da parte di Epaminonda. E così scelsero una sposa fra le tante donne che scrivevano a Renato. Pensa che volevano che fosse il papa a officiare”.
Immagino che Giovanni Paolo II fosse occupato…
“Già, ci pensò il prete del carcere. In ogni caso la vicenda non salvò Turatello, che dopo non molto fu ammazzato in malo modo nel cortile di una prigione in Sardegna”.
Ma tutta questa nera non finisce per turbarla?
“Sono storie da raccontare, che dicono molto di noi e che ci spingono a comprendere le vittime. Mi salva poi la convinzione che la stragrande maggioranza delle persone non è criminale e non farebbe mai del male a nessuno”.
L’ha sorpresa questo suo talento per la narrazione?
“No, un po’ lo sospettavo. Poi nelle riviste mi sono a lungo occupato della macchina giornalistica. Ma quando c’è stata l’occasione, mi è venuto piuttosto naturale”.
Tutti chiedono di Garlasco.
“Rispondo così: in questo momento è impossibile avere una certezza, quindi sbilanciarsi con un’opinione forte è da matti. Le informazioni cambiano di ora in ora, saranno gli esami scientifici a determinare il tutto: l’impronta e il Dna sotto le unghie. Quello che si può dire è che l’indagine e l’iter processuale che considerò per due volte Stasi innocente, non hanno mai sciolto i dubbi sulla vicenda. È sempre mancata la vera prova”.
Ma dopo 18 anni è accettabile essere di nuovo a questo punto?
“No, non lo è. C’è stato evidentemente un errore, o adesso o in passato, non è una bella sensazione. Ogni tanto le procure si innamorano di una tesi, è quella che viene definita una “visione a tunnel“. Individui un colpevole e via, sottovalutando altre piste”.
Sta facendo molta impressione la vicenda di Martina Carbonaro, 14enne, uccisa nelle scorse ore ad Afragola.
“È una cosa che lascia quasi increduli. Provo rabbia e una grande tristezza. Anche perché ogni tanto mi illudo che le nuove generazioni si stiano un po’ liberando da certe dinamiche relazionali tossiche, legate al possesso e all’ossessione. Non è così. E questo omicidio, come quello di Giulia Cecchettin, ci spingono ad aprire gli occhi”.
Un caso che l’ha scossa?
“Il rapimento e l’omicidio di Tommaso Onofri, vicino a Parma. Non riesco a rispondere alla domanda sul perché l’abbiano ucciso, per altro pochi minuti dopo il sequestro. La violenza ti lascia sempre un vuoto di senso. Ma in questo caso parliamo di un bambino di tre anni, l’essere più indifeso al mondo, qualcosa che ti scuote nel profondo”.