
Rossano Cochis e Renato Vallanzasca. A destra, Tino Stefanini
L’inventore del carcere “aperto” di Bollate Lucio Pagano ne apprezzava, ricambiato, l’intelligenza fuori dal comune. Un dono prezioso, diceva lui, ma male investito nel crimine, visti arresti e condanne. A pena scontata, mezzo secolo dietro le sbarre per furti, rapine e omicidio, Alfredo Santino Stefanini, per tutti Tino, sembra aver trovato il modo di mettere a frutto il suo sano e naturale talento.
La libertà
A 72 anni, l’ex gangster della Comasina, unico superstite della banda più temuta d’Italia, insieme al capo Renato Vallanzasca e all’amico Osvaldo “Cico” Monopoli, capisce e cavalca i tempi che corrono, come se la lunghissima detenzione non lo avesse mai isolato dalla realtà là fuori. E ora che, dallo scorso settembre, fuori ci è per davvero, scaduto anche l’affidamento ai servizi sociali, a differenza di tanti altri tornati in libertà, non pare soffrire l’adattamento a un mondo e a una città, Milano, così cambiati. “Sì, noi sparavamo – ricorda – ma oggi si respira molta più paura. Ai miei tempi le strade erano piene di gente anche la notte, ora non scendi dalla macchina a certe ore”. “Quanto a me – aggiunge – posso dire che in carcere non sono mai rimasto con le mani in mano: ho studiato, mi sono diplomato in ragioneria, ho lavorato in regime di semilibertà e partecipato a vari progetti culturali. Questo mi ha permesso di rimanere al passo e cambiare testa". Lo ha aiutato, anche, a ricucire lo strappo con l’unico figlio, Eros, che ora è un uomo.
Il personaggio che non ti aspetti
I baffi sono quelli di una volta, alla tedesca, quasi a lambire il mento. La chioma non può che apparire meno scura e folta e non per questioni di moda. Anche negli anni ‘70, in quelle foto pubblicate sulle pagine di cronaca nera, Stefanini non aveva la faccia da delinquente. La scintilla luciferina di Vallanzasca non ha mai brillato nei suoi occhi, chiari come quelli del bel Renè, ma più malinconici e rassicuranti, forse per il taglio all’ingiù. Guardandolo, tutto si direbbe di lui tranne due cose: che in passato sia stato un bandito, di cui tanto si è già scritto, e che adesso sia a suo modo un influencer, capace di destreggiarsi tra Instagram e TikTok con buona dimestichezza.
I post su Instagram
A partire dalla prima regola di chi va a caccia di like sui social media: la regolarità nella frequenza di pubblicazione. E così quasi ogni giorno, all’ora dell’aperitivo, Stefanini si collega dalla sua casa popolare nel quartiere Gallaratese e saluta le migliaia di followers sorseggiando uno spritz. All’alba posta un breve video con l’apertura del Tg1 del mattin; a pranzo, quando vale la pena, il reel dal ristorante in compagnia di amici più o meno noti, con piatti messi in bella mostra come fanno i blogger. “Ho iniziato con Facebook – sorride – e poi ho visto che le richieste di amicizia aumentavano e mi sono lanciato. A dire il vero mi sembra di capirci poco ma in effetti i miei video vengono seguiti anche dai più giovani. È a loro che, in questo modo, voglio indirizzare il mio messaggio: io vi racconto le mie storie perché voi capiate che non vale la pena fare una vita da bandito come la mia”.
Lo stadio, TikTok e i rapper
Poi c’è lo stadio. Quando gioca l’Inter, prima della partita, l’appuntamento è al baretto di San Siro, sotto la curva nord, storico luogo di ritrovo degli ultras nerazzurri. Il più rispettato, Nino Ciccarelli, fondatore dei Viking, è amico di Stefanini ed è stato ospite alla diretta su TikTok che l’ex gangster della Comasina lancia ogni lunedì sera.

Anche il rapper Jack La Furia, che con Gue’ Pequeno e Don Joe completa i Club Dogo, ha accettato l’invito al live streaming sulla piattaforma social più diffusa tra i giovanissimi, TikTok appunto. Si parla di criminalità, quella di ieri raccontata da Stefanini e quella di oggi. Poi di musica, di tifo e, in definitiva, del sottobosco urbano.

Malamilano
Il nome del format su TikTok è Malamilano.official, proprio come il brand della linea di abbigliamento lanciata insieme con altri soci. Discutibile, forse, l’immagine del kalashnikov e di altre armi sulle t-shirt, con tanto di nome in slang (ferro, ciappone, ananas etc), un po’ meno il successo dell’iniziativa: mille magliette vendute online in poche ore al debutto e un sito web per l’e-commerce dove al momento ogni articolo risulta esaurito. “All’inizio – ricorda – deposito il marchio La Mala di Milano, vendendo le magliette con il volto mio insieme a quelli di Renato e Cico: l’iniziativa funziona. Allora un paio di amici imprenditori mi suggeriscono di abbreviare il nome e di lanciare con loro una linea di abbigliamento. Così riesco ad arrotondare un po’”. Un invito alla violenza? “Macché, stiamo dicendo che le armi al massimo vanno stampate sulle magliette...”

Passato e riflessioni
Bisogna pur vivere e sopravvivere anche fuori dal carcere, al netto della pensione di invalidità che percepisce, pensa Stefanini, raccontando all’indefinita platea delle rete la sua parabola criminale: dal bar di via Cialdini ad Affori comprato dalla mamma, dove conosce i primi balordi di periferia, ai furtarelli per divertimento, perché in realtà a lui, di famiglia borghese, non mancava nulla. Dalle amicizie dannate e fraterne con Vallanzasca, Antonio “Pinella” Colia e Monopoli, alle rapine per permettersi la bella vita. E poi gli arresti, il carcere, le evasioni, la scia di sangue e morte, e un’esistenza “buttata” dietro le sbarre. Ripete che non vuole “nascondere nulla del passato” e che, allo stesso tempo, “quella vita non la rifarei più”. Gli luccica l’iride quando pensa ai compagni che non ci sono più. “Di venti che eravamo siamo rimasti in tre”. La sua ultima stagione, saldato il debito con la giustizia, è comunque vitale e lucida, malgrado i problemi di salute.

L’opposto di quella Renato Vallanzasca, lo spietato capo collezionista di ergastoli condannato anche dall’Alzheimer a non capire e ricordare nulla. Per lui, trasferito dal carcere alla detenzione in una struttura assistenziale in Veneto, Tino Stefanini invoca la grazia al presidente Sergio Mattarella. Lo fa in ogni modo: attraverso le colonne del Giorno, coinvolgendo personaggi famosi come il rapper Tony Effe e lanciando una petizione su change.org. “Riavvicinare Renato a Milano, ridandogli la libertà, sarebbe l’unico modo per consentire agli amici di stargli vicino e a lui di avere un conforto”. “Qui c’è gente disposta ad aiutarlo. Dove è ora non ha nessuno - prosegue - e per andarlo a trovare serve un permesso che difficilmente viene concesso. Renato ha scontato 54 anni di galera e non è più in grado di fare male a nessuno ridotto com’è. Che senso ha farlo morire da recluso lontano da tutti?". La domanda che Stefanini pone a tutti, ogni giorno della sua nuova vita.