Milano, 14 giugno 2025 – “Chiediamo giustizia per Teresa Meneghetti, l’ipotesi che a chi l’ha uccisa possa essere riconosciuta l’infermità mentale ci lascia allibiti: non può trasformarsi in un alibi”. È questo uno degli slogan scanditi dalla figlia della 82enne uccisa, esattamente un mese fa, il 14 maggio, nel suo appartamento di via Verro al Vigentino da un 15enne figlio di una vicina di casa della pensionata.
Silvia Bindella è la figlia di Terry, com’era affettuosamente chiamata Teresa. Assieme al marito, alle figlie, ad amici e parenti ha organizzato un mini corteo che si è snodato nel primo pomeriggio di oggi fra piazza Missori e piazza San Fedele, alle spalle di Palazzo Marino, per ricordare la madre e perché il suo caso non sia dimenticato. Per chiedere giustizia. C’erano anche i rappresentanti dei municipi 5 (di cui fa parte la zona Vigentino) e 3, e l’assessore regionale alla Sicurezza e Protezione civile Romano La Russa.

Il movente resta un mistero
“Sarà il primo di una lunga serie – dice –. Quello di oggi ha coinciso col giorno esatto in cui mia madre è stata uccisa da questo assassino. Senza nemmeno una “ragione”. Già, perché ad oggi non sappiamo nemmeno il motivo, ammesso che possa essercene uno, che “spieghi” la sua morte, nessuno ce l’ha detto. Ne organizzeremo allora degli altri, finché giustizia non sarà stata fatta; perché ormai viviamo in un mondo al contrario, paradossale: noi che siamo vittime di un omicidio non possiamo costituirci parti civili in quanto l’imputato è minorenne, e al massimo avremo diritto a un indennizzo irrisorio, si parla di 50mila euro. Il killer invece sarà rieducato, recuperato, ”capito” e magari gli troveranno anche un lavoro”.

La rabbia di una figlia
È un fiume in piena Silvia Bindella. Colmo di rabbia e dolore. E di timori che al ragazzo che le ha portato via la mamma (e la nonna delle sue due figlie di 18 e 22 anni) siano applicate le attenuanti del caso, a cominciare dalla minore età, fino all’eventuale perizia psichiatrica per stabilirne una possibile infermità mentale. “Tutto ciò è assurdo. A noi è stato inflitto un ergastolo, mentre questo killer a sangue freddo se la caverà forse con qualche anno di detenzione e magari un percorso di recupero”. “Io, mio marito e le nostre figlie abbiamo chiesto un supporto psicologico per quel che stiamo attraversando. Lo sa? Lo stiamo pagando con i nostri soldi lo psicologo, come abbiamo pagato il funerale e ora le spese per gli avvocati”.

"Non perdono, non sono Gesù”
Silvia non lo vuole chiamare “ragazzo”, né “quindicenne”, né adolescente: “È un assassino e basta. Chi uccide, per giunta per dei futili motivi, è un killer e come tale va trattato dalla giustizia, che abbia 15, 18, 40 o 60 anni”. E ovviamente non c’è minimamente spazio per il “perdono”. “Perdono? no, io non perdono. Non perdonerò mai. Non sono Gesù Cristo. Posso perdonare una marachella, non un omicida che ha ucciso una donna che non aveva mai fatto del male a nessuno”.
Terry era un’istituzione nel suo quartiere, al Vigentino. Lo ricorda e lo sottolinea con orgoglio Silvia. “Due anni fa mia madre aveva aiutato questa famiglia (di origini venezuelane, ndr) quando viveva nello stesso palazzo di via Verro. Ecco com’è stata ripagata”.
Il profilo del killer
Da quel che ha raccontato ai magistrati del Tribunale per i minorenni che l’hanno interrogato il quindicenne che ha ucciso Teresa Meneghetti ha provato a spiegare l’abisso in cui era sprofondato, probabilmente da mesi. Ne emerge il ritratto di un adolescente introverso, preda di un profondo disagio poi esploso quella mattina del 14 maggio in cui ha aggredito la donna prima colpendola con una lampada e poi strangolandola.
"Tutti ce l’hanno con me”
"Mi sentivo colpevole, ma anche arrabbiato", sono state le sue parole. Una rabbia covata chissà da quanto tempo. Una rabbia, metterà a verbale, generata dalla sensazione che tutti ce l’abbiano con lui: "Le persone sono contro di me e mi sono sfogato su di lei". E ancora: "Una ragazza che mi piaceva parla male di me. I miei compagni di scuola parlano male di me. Anche gli insegnanti. Ho avuto attacchi di rabbia, ma è la prima volta che mi succede così".
Il rientro a casa con la 95
"Sono in Italia da nove anni con mia mamma e mia sorella". Dopo alcune domande preliminari sugli sport praticati ("Gioco a basket, però mi ammalo spesso") e sulle abitudini di vita ("Non mi piace tanto uscire"), ripercorre le scene di quel film dell’orrore. Il rientro a casa in bus, sulla 95, dove “nessuno si è accorto che ero sporco di sangue. Io non riuscivo a pensare a niente. Guardavo in alto".
i.a.