Milano, 13 maggio 2025 – “La decisione è stata emessa in ragione di un percorso carcerario che si è mantenuto sempre positivo anche durante i due anni di lavoro presso l'albergo Berna, senza che nulla potesse lasciare presagire l'imprevedibile e drammatico esito”.

Lo scrivono in una nota il presidente della Corte d'Appello di Milano, Giuseppe Ondei, e la presidente facente funzione del Tribunale di Sorveglianza, Anna Maria Oddone, sul caso di Emanuele De Maria, il detenuto che aveva ottenuto il lavoro esterno e che ha ucciso la collega barista Arachchilage Dona Chamila Wijesuriy e ha tentato di uccidere un altro collega dell'albergo e poi si è tolto la vita gettandosi dalle terrazze del Duomo.
Una sequenza drammatica che non ha mancato di suscitare reazioni sull’opportunità di consentire a un detenuto condannato per omicidio volontario, come nel caso di De Maria, di lasciare il carcere per lavorare.

Il marito di Chamila
“La mia preoccupazione, che condivido con tutti, giustizia italiana compresa, è questa: fate più attenzione quando date la libertà a chi ha commesso un omicidio volontario". Cos Himanshu, il marito della 50enne italo-srilankese Arachchilage Dona Chamila Wijesuriya trovata morta al Parco Nord di Milano.
Le polemiche
Sulla vicenda, che si è conclusa in maniera drammatica proprio nel cuore della città gremito di persone, è intervenuto anche il sindaco di Milano: “Capisco lo sgomento dei milanesi – ha detto Giuseppe Sala – perché indubbiamente è una cosa che è difficile da spiegare ai cittadini di come, dopo un omicidio, la condanna sia di 14 anni e dopo non molti anni il condannato possa uscire. Queste però sono le leggi”.
Polemiche anche a livello nazionale con Forza Italia e FdI che hanno avanzato interrogazioni e richieste di ispezione al ministro della Giustizia: “Le valutazioni della magistratura sono state sbagliate - ha detto Maurizio Gasparri - bisogna individuare le colpe e sanzionare chi ha commesso un errore così grave”.

Guai a generalizzare
L’associazione Antigone, che a 35 anni opera all’interno dei penitenziari, sottolinea invece la sicurezza delle misure alternative al carcere. "Sono meno dell’1% quelle che vengono revocate per la commissione di nuovi reati - spiega il presidente Patrizio Gonnella - mentre la recidiva è del 70% per chi sconta l’intera pena in carcere.
Mettere in discussione questi strumenti per un singolo caso di cronaca è sbagliato e anche pericoloso proprio per la sicurezza, specie se si considera che sono circa centomila le persone che oggi hanno stanno eseguendo una qualche misura di comunità. Al 15 Marzo 2025 risultavano 97.009 le persone che stavano eseguendo una qualche misura di comunità nel nostro Paese, un numero in crescita da molti anni e senza il quale le carceri italiane sarebbero esplose”.