
Mario Calderini, professore di Polimi Graduate School of Management
MILANO – “Il caso Milano è un’occasione di riflessione, ma anche un monito: è stato il terreno dove si è tentato di costruire una nuova forma di sviluppo urbano sostenuto dalla finanza. Ma è anche il luogo in cui quella finanza ha perso progressivamente il contatto con i suoi obiettivi dichiarati. Va ritrovato l’equilibrio tra interesse pubblico e capitale privato”. A dirlo è Mario Calderini, professore di Polimi Graduate School of Management.
Professore, lo sviluppo urbanistico della città è sotto inchiesta. Fine del modello Milano?
“No. Io penso che esista un modello Milano e che sia virtuoso. È un modello che ha saputo dare dinamismo alla città, con una crescita di abitanti e di ricchezza, combinando capitali privati con un rinnovamento della città importante. È un modello che va difeso. Ma come tutti i modelli di crescita più spinti si è prestato, se non altro, a un’esagerazione. Si è superato il limite”.
Come?
“In particolare nel rapporto tra pubblico e privato: negli ultimi anni abbiamo visto molte operazioni di sviluppo estrattivo, a vantaggio dei privati”.
La città è stata “svenduta“?
“Credo ci siano due aspetti. Nella negoziazione e negli oneri di urbanizzazione, che giustamente si chiedono ai privati, la politica avrebbe potuto chiedere di più, in termini per esempio di infrastrutture pubbliche e servizi agli abitanti. L’altro aspetto - più delicato e che ha a che fare con la parte più finanziaria - riguarda gli sviluppatori e gli investitori che spesso promettevano nella pianificazione una narrazione di sostenibilità molto spinta che però è rimasta più nella forma che nella sostanza. Sulla restituzione verde e ancora di più sul valore sociale sono molte le promesse vuote”.
Sostenibilità: parola abusata?
“Credo ci sia stato un abuso e pure quello che si chiama washing: nei rendering si leggono promesse sulla restituzione di valore basate su metriche non vere e che vengono un po’ dimenticate in fase di esecuzione”.
Servono più controlli?
“Sì e un’infrastruttura di misurazione che permetta di verificare se effettivamente gli obiettivi siano stati raggiunti e se c’è una corrispondenza con le promesse sul valore sociale delle opere. Detto questo, non dobbiamo buttare il bambino con l’acqua sporca”.
Cosa salvare e cosa buttare?
“Partiamo dal buono, ricordiamoci, per esempio, cos’era Porta Nuova prima dell’intervento: un buco nero in mezzo alla città. Per tornare al modello Milano dobbiamo fermare il pendolo a metà strada, non farlo rimbalzare dai buchi neri urbani mostruosi all’esagerazione opposta”.
Che pericolo si corre oggi?
“C’è il fenomeno dell’espulsione della classe media, l’inasprirsi di disuguaglianze. Di buchi neri ne abbiamo ancora, ci sono operazioni importanti sugli ex scali, per esempio. Va rimesso al centro l’interesse pubblico”.
Milano rischia di allontanare anche gli studenti?
“Il numero degli studenti in questi anni è cresciuto moltissimo. Però vediamo anche oggi che studiare a Milano diventa complicato. Per fortuna la città ha atenei straordinari, che attraggono, ma non possiamo pensare che gli studenti vadano ad abitare a Pavia, Lecco, Como. Non si crea così la città universitaria e non si possono attirare solo studenti ricchi. Sugli studentati c’è molto da fare ed è forse la parte più debole e rischiosa della storia. Mettere le stanze in affitto a prezzi di mercato oggi inaffrontabili per gli studenti, chiamandole operazioni sociali, non solo significa non aiutare gli studenti ma speculare sulle loro spalle. Il pubblico deve intervenire”.
Da dove ripartire, insomma?
“Tutti dobbiamo assumerci le nostre responsabilità, anche il mondo accademico e chi si occupa di Finanza come me: siamo stati di manica larga attribuendo le etichette “verde“ e “sociale“ alle operazioni urbanistiche. Abbiamo ritenuto fosse così importante promuovere il “green“ e l’”inclusione” da essere troppo morbidi e accomodanti. Dobbiamo essere più selettivi, verificare con rigore. Per ricucire le cose e non buttare la croce sul modello Milano dobbiamo smettere di essere “buttadentro“ della finanza sostenibile ed essere più “buttafuori“: se tutti i progetti hanno un impatto dal punto di vista ambientale e sociale, nessuno lo ha per davvero. Per ripartire vanno stabiliti criteri rigorosi e invalicabili”.