
Silvio Soldini, 67 anni, regista e sceneggiatore è il nuovo presidente di Cineteca Milano e in giuria a Venezia
Milano, 28 agosto 2025 – Il viaggio comincia dalla “sua“ Milano, fa tappa a Venezia, si apre a nuovi orizzonti. Il regista Silvio Soldini è nella giuria del Premio Opera Prima “Luigi De Laurentiis“ alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Lo accompagniamo per una tratta, su un “Treno di parole“ - per rievocare il titolo e le atmosfere di uno dei suoi film - tra i ricordi dei primi e avventurosi passi nel cinema e le prossime mete.
Milano, stazione di partenza e di continui ritorni. Adesso con un ruolo in più: è il nuovo presidente di Cineteca Milano. Quale sarà la prima sfida?
“Quando avevo 17, 18, 19 anni - ed era ancora in via San Marco - la Cineteca è stata un punto di riferimento per me. E mi piacerebbe che lo diventasse o che continuasse ad esserlo per tanti giovani anche oggi. Dire ‘come’ è un po’ presto, è tutto in divenire, ci ragioneremo con il direttore Matteo Pavesi. Certo fa effetto pensare che ci siano 40.000 film custoditi nella cella frigorifera, nel sottosuolo della Cineteca. È giusto che siano valorizzati. È un punto di riferimento per il cinema, un luogo dove andare a vedere rassegne, fare incontri, trovare sempre cose interessanti”.
Silvio 17enne cos’ha scoperto grazie alla Cineteca?
“Tanti autori, penso ad Antonioni e Bresson. E ho iniziato a capire lì che il cinema era qualcosa che avrei voluto fare, anche se non osavo pensarlo fino in fondo. Nei due anni che ho trascorso a New York ho avuto la possibilità di approfondire il discorso. Vedevo più o meno 10-12 film a settimana: c’erano due cinema che ogni giorno proiettavano film diversi, se ne vedevano due in un colpo. Tornando alla Cineteca, ricordo che era un momento di incontro con gli amici, di scoperta: ti avvicinavi a film, senza avere la minima idea di cosa andassi a vedere, che hanno lasciato tracce indelebili”.
A Venezia ha un compito: vagliare le opere prime. Un po’ “al buio“ come allora.
“E verrà dato un premio anche in denaro. Una grande responsabilità: è importante darlo alla persona giusta. Sono in una giuria con due registe, una inglese e l’altra francese: Charlotte Wells e Erige Sehiri. L’aspetto interessante da un lato e rischioso dall’altro è che nell’opera prima non sai nulla dell’autore, ogni tanto possono esserci distanze difficili da colmare, ma siamo in tre, spero ci sia un buon dialogo tra noi, senza arroccarsi su posizioni: le giurie non sono semplici, bisogna trovare un film che metta un po’ d’accordo tutti. Spero di fare delle belle scoperte. E poi ricordo con grande affetto quando ho fatto la mia di opera prima L’aria serena dell’Ovest. Presuppone una grandissima quantità di entusiasmo e caparbietà. Devi investire tutte le tue energie per farcela, costi quel che costi”.
Fu una vera impresa per lei?
“Io venivo da una serie di corti e mediometraggi che avevo scritto e trattato. Poi mi sono sentito in grado di affrontare il primo lungometraggio. Abbiamo usato addirittura una pellicola, non dico di seconda mano ma quasi, nel senso che erano gli “scarti“, gli avanzi delle grosse produzioni inglesi. Se un rullo dura, chessò, centoventi metri, quando un operatore si accorge che ne mancano trenta e rischia di non finire il ciak cambia pellicola. Avevo trovato il modo di recuperare anche quei rimasugli, per dire quanto eravamo poveri”.
Ne valse la pena. Film dopo film rieccoci a Venezia, dove sarà anche premiato con il Women in Cinema Award.
“E mi fa piacere. Molti miei film raccontano personaggi femminili, ho sempre cercato di farlo in tutta la loro complessità e profondità, senza essere superficiale e credo di esserci riuscito più di una volta”.
Anche questa è una bella responsabilità e un segnale in un mondo del cinema ancora “al maschile“?
“La propensione a raccontare personaggi femminili non è venuta da una decisione ‘politica’ ma attraverso il lavoro. Raccontare e indagare personaggi femminili, lavorare con le attrici, è sempre stato un momento in cui mi sentivo ‘a casa’. Attraverso personaggi femminili riuscivo a raccontare cose che molto difficilmente avrei fatto altrimenti. Al tempo stesso mi sono reso conto che il cinema in generale e il cinema italiano in particolare è molto più propenso a raccontare personaggi maschili, quindi c’era un’apertura rispetto al fatto di raccontare personaggi femminili e me ne sono impossessato un po’, anche se non sono il solo, per fortuna”.
Uno sguardo che ha portato avanti fino a Le assaggiatrici.
“Che erano sette da raccontare, quindi non potevo dire di no. Abbiamo lavorato insieme due settimane prima di iniziare le riprese e devo dire che il fatto che fossero attrici tedesche ha aiutato molto: raccontavano qualcosa che sentivano vicino. E poi erano molto brave, coscienziose e avevano molta voglia di indagare il proprio personaggio: è stato molto bello”.
Qualche anticipazione sul prossimo viaggio?
“Sto scrivendo ancora, ma sarà una commedia, questo è sicuro: vorrei tornare su toni un po’ più ironici e leggeri dopo gli ultimi due film drammatici. Ci sarà un protagonista maschile, per una volta, e ci sarà più musica del solito. Non dico altro. Spero sia pronto nell’autunno del 2026”.
Intanto insegna.
“Da 20 anni mi occupo di OffiCine, scuola-laboratorio. Da quest’anno ci sarà un’avventura nuova: la scuola di cinema dello Ied, che avrà triennio e biennio, con ragazzi che devono iniziare da zero. È bello avere a che fare con loro, anche se non è semplice l’insegnamento e far passare quello che ti sembra importante senza prevaricare, facendolo toccare con mano. È giusto anche che sbaglino, che trovino le loro strade, però bisogna condurli. Il percorso per realizzare un film è definito e preciso, in ogni fase c’è qualcosa da apprendere, da imparare, quindi è bello seguirli in questo viaggio ogni volta”.