Arnaldo Liguori
Cultura e Spettacoli

Ozmo e la street art al Leoncavallo: “Milano? Da underground a salottino per aperitivi. Noi e Sgarbi, quel muro ritardò lo sgombero per anni”

Lo sgombero del centro sociale è il necrologio di un’epoca già perduta. Gionata Gesi, pioniere dell’arte di strada: “Senza spazi liberi la cultura indipendente muore, sostituita da grattacieli e consumo”

Ozmo, al secolo Gionata Gesi, e lo storico murale del Leoncavallo a Milano

Ozmo, al secolo Gionata Gesi, e lo storico murale del Leoncavallo a Milano

Milano – C’è una città che scompare dietro gli scudi della polizia e una che nasce sotto i pennelli degli street artist. Ozmo, pseudonimo di Gionata Gesi  – classe 1975, pisano di Pontedera, firma urbana approdata poi al Pac, al Museo del 900 e nelle grandi gallerie d’arte internazionali – ha vissuto entrambe sulla propria pelle. Ha visto la trasformazione del Leoncavallo da centro sociale a caso nazionale e di Milano da crogiolo di culture underground a vetrina per ricchi. Lo sgombero del 21 agosto lo ha visto da lontano, da Parigi, dove si è trasferito sei anni fa: l’arte di strada ha bisogno di spazi liberi, e Milano li sta perdendo tutti.

Come ha reagito allo sgombero?

“Mi è dispiaciuto. Perché sono spazi alternativi come questi a rendere interessante questa città. Ed è per questa cultura underground che da ragazzo mi sono spostato da Pisa, dove sono nato, a Milano”.

La sua carriera è iniziata lì.

“Per oltre un decennio ho vissuto (artisticamente e non) nei centri sociali. I graffiti che ho fatto per Carlo Giuliani e per Dax hanno reinventato un modo iconico per dare voce alle proteste in memoria di questi martiri politici. Luoghi come il Leoncavallo o il Bulk erano zone franche che permettevano una sperimentazione al di fuori della logica del consumo o della filosofia dell’aperitivo. Lo sgombero del Leoncavallo rappresenta un’occasione perduta, non solo per Milano, ma per l’Italia”.

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All’inizio degli anni duemila ha realizzato su quel muro l’opera che Vittorio Sgarbi – il quale notoriamente non simpatizza con la controcultura – ha definito la “Cappella Sistina della contemporaneità”.

“Successe nel 2006. La cosa assurda è che in quel momento mi trovavo in Messico, ero scappato da Milano anche perché troppi artisti stavano salendo sul carro (che stava diventando vincitore) della street art. Mi dissero che il mio disegno era sulla copertina di un libro di Skira sui graffiti del Leoncavallo. Viene fuori che Sgarbi era passato di lì e aveva omaggiato il mio muro, lasciando per altro sgomento il comune di Milano che già all’epoca voleva “la testa” del centro sociale. Poi si ebbe l’idea di organizzare la mostra al Padiglione d’arte contemporanea”.

Insomma, quella volta che Sgarbi salvò il Leoncavallo.

“La realtà è che lui sdoganò la street art. Noi eravamo già lanciatissimi, Sgarbi toccò quella forma d’arte e la commercializzò. Così facendo, paradossalmente impedì alla street art italiana di diventare un vero movimento artistico”.

Però quel muro di graffiti ha dato al Leoncavallo un valore artistico e storico riconosciuto a livello internazionale.

“Il nostro intervento sul muro del Leoncavallo ha sicuramente ritardato lo sgombero di qualche anno. Quello che è successo con Sgarbi ha davvero rotto le uova nel paniere a chi all’epoca voleva fare a pezzi quella realtà da un giorno all’altro. Il problema però è che nel frattempo la società capitalistica è andata avanti: oggi non esistono più spazi gratuiti in una città come Milano”.

Prima c’erano?

“La Milano che vivevo io fino a vent’anni fa era quella dell’Isola dei centri sociali. Dove ora c’è il Bosco Verticale, fiore all’occhiello del plusvalore e del terziario avanzato, c’era la Stecca, un edificio che accoglieva artigiani e artisti. C’erano luoghi di aggregazione dove la birra si pagava un euro e cinquanta, dove si ritrovavano giovani e meno giovani senza il bisogno dell’aperitivo e della musica a tutto volume. Oggi non c’è una sedia in città che si possa occupare senza essere obbligati a consumare”.

Personalmente come ha reagito?

“Eh, mi sono trasferito a Parigi”.

Sfratto Centro sociale Leoncavallo
La polizia esegue, con l'ufficiale giudiziario, l'ordine di sfratto emesso nei confronti dello storico centro sociale Leoncavallo a Milano (Ansa/Fasani)

La fine (presunta) del Leoncavallo è l’apice di questa trasformazione della città?

“Nell’arco di tre giunte non è stata trovata una soluzione: anche la politica locale ha le sue responsabilità. Milano è diventata la città dei grattacieli, dei boschi verticali e del mattone facile”.

Tutto di questo è successo anche sotto amministrazioni di centrosinistra.

“Chiariamoci, Sala è stato criticato fin da subito dai centri sociali. Detto questo sono un artista e non faccio politica, anche se le due cose sono spesso sovrapposte. A Berlino mi hanno messo in prigione per una notte perché ho fatto street art, non perché partecipavo a una manifestazione”.

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La street art può sopravvivere senza spazi di controcultura e resistenza?

“Provo a farla breve: la street art non vive al di fuori dell’illegalità. Perché Banksy rimane il più importante anche se quello che fa sembra una grafica da t-shirt? Perché la sua opera vive in spazi illegali e di anonimato. Quando la street art perde questo diventa ‘solo’ arte pubblica. Poi, non dico che non debba finire nei musei, si può fare tutto, ma va fatto bene”.

Via Watteau, il centro sociale Leoncavallo
Graffici sui musi del Leoncavallo in via Watteau

Ma oggi c’è ancora la possibilità di costruire spazi come il Leoncavallo? O quella stagione è chiusa?

“A questa domanda possono rispondere solo le istituzioni, dai sindaci ai ministri. Ma è evidente che esiste un problema politico, perché mentre viene sgomberato il Leoncavallo, il palazzo occupato da Casapound non si tocca. Io credo che Milano troverà un’alternativa al Leonka, perché è il simbolo di una cultura troppo importante, il problema è che questo nuovo spazio magari costerà quindicimila euro al mese di affitto. Come dicevo, è tutto a pagamento”.