
Bruce Springsteen (75 anni) il prossimo 30 giugno e poi il 3 luglio sarà in concerto allo stadio di San Siro; a sinistra, il fotografo Guido Harari
Milano, 26 giugno 2025 – Un rocker da grandangolo. Parola di Guido Harari, che racconta ancora oggi lo Springsteen di quel 21 giugno 1985 come un inafferrabile guitar-hero. “Uno di quegli artisti che si danno molto al proprio pubblico spostandosi da un lato all’altro del palco alla continua ricerca del contatto. Quindi non proprio un uomo da primo piano o da teleobiettivo, ma da campo largo. Una manna per i fans che stanno schiacciati lì sotto nel pit coi loro smartphone e possono così catturare l’essenza del suo rapporto con la gente”.
Che giorno quel giorno di quarant’anni fa.
“Il rapporto del Boss con l’Italia iniziato tra quegli spalti. L’anno precedente era già venuto a suonare da noi (pure a Milano al Rolling Stone - ndr) Little Steven con i suoi Disciples of Soul. Probabilmente qualcosa gli aveva raccontato, mettendogli addosso magari un po’ di voglia di venire pure lui”.
Che San Siro era?
“Noi fotografi stavamo su una pedana rialzata che ci dava praticamente la possibilità di appoggiare i gomiti sul palco. Quindi ho una sequenza del suo ingresso in scena che inizia dallo spuntare della testa sul fondo con quello sguardo lungo, che accarezzava la platea mentre dagli spalti partiva il boato”.
L’Italia è stato un paese speciale da subito per Springsteen?
“Direi proprio di sì. Mi ricordo, addirittura quando venne a San Siro nel 2003 col tour di ‘The rising’ e nel retropalco un suo caro amico, il giornalista del ‘Messaggero’ Paolo Zaccagnini, gli disse: Sei in Italia, a Milano, devi suonare ‘Rosalita (Come out tonight)’. E lui che non la faceva in concerto chissà da quanto, l’accontentò”.
Era il famoso “concerto della pioggia”.
“Già, quello in cui, date le condizioni atmosferiche, Bruce suonò a sorpresa ‘Who’ll stop the rain’ dei Creedence Clearwater Revival. Un trascinatore nato, affiancato in scena da grandissimi musicisti come quelli della E-Street Band”.
Un gran frequentatore di concerti come lei, il brivido di quel giorno lungo la schiena con chi altro l’ha provato?
“Diversi per motivi diversi. Il Rastaman Vibration Tour di Bob Marley nel 1976 all’Hammersmith Odeon di Londra. Pazzesco. Quelli di Leonard Cohen dal suo ritorno al live del 2008 in poi, strepitosi. Ecco, Cohen mi fa pensare a certe grandi tournée di Fabrizio de André come quella di ‘Anime salve’, ad esempio. Artisti capaci nella maturità di distillare il meglio della propria arte. Non è da tutti. Gente come Tom Waits, soprattutto in quel Glitter & Doom Tour approdato nel 2008 per tre notti pure agli Arcimboldi. Concerto generosissimo, lunghissimo, in cui l’artista dava la netta percezione di essersi spostato su un altro piano”.
Cosa esprime Springsteen davanti all’obiettivo?
“Tanto. Nelle mostre e nei libri utilizzo molto una foto del tour di ‘Tunnel of love’ a cui sono molto affezionato. Proprio in quel tour, a Torino, saltò tra i fotografi alloggiati sulla solita pedana sottopalco e ce lo ritrovammo praticamente in braccio. Preso alla sprovvista non riuscii a scattare, ma alcuni colleghi sì. Lì davanti, solo ad un metro, con la chitarra innalzata al cielo. Una vera icona rock”.
Formidabili quei tempi.
“Sì, perché oggi certe cose non avvengono più, in quanto i fotografi sono collocati sempre più distanti dal palco e quando si vedono foto di quel genere risalgono ad almeno 20-30 anni fa”.