
Giacomo Trimarco, 21 anni, figlio adottivo di Stefania Mazzei
San Donato Milanese (Milano) – “Mio figlio, vittima del sistema. Un ragazzo fragile, che non ha ricevuto aiuti adeguati dalle istituzioni”. Tre anni non sono bastati per lenire il dolore della sandonatese Stefania Mazzei, mamma adottiva di Giacomo Trimarco, 21enne originario di San Pietroburgo, con un disturbo border-line, che il 31 maggio 2022 si è suicidato in una cella del carcere milanese di San Vittore, dov’era rinchiuso dall’agosto precedente per aver commesso una serie di piccoli reati, l’ultimo dei quali era stato il furto di un telefonino. Il giovane, che si è tolto la vita inalando il gas di un fornelletto da campo, era in attesa del trasferimento in una Rems, struttura sanitaria che accoglie gli autori di reato affetti da disturbi mentali. Anche Domenico Livrieri, 48enne che il 4 ottobre 2023, a Milano, uccise la vicina di casa Marta Di Nardo per rapinarla di poco più di 150 euro, avrebbe dovuto essere in una Rems, ma la misura era rimasta ineseguita per mancanza di posti nella struttura. Due episodi differenti, ma che danno l’idea di un sistema sovraccarico e da ripensare.
Stefania, come sono stati questi tre anni senza Giacomo?
“Un lungo periodo di dolore e amarezza. All’inizio mi sentivo combattiva, poi è subentrato un crollo. Fatico a rielaborare”.
Lei e la sua famiglia avete ottenuto un risarcimento o una forma di sostegno psicologico?
“Nulla. Dopo l’autopsia, tutto archiviato. Per altro, un eventuale iter giudiziario non si attiverebbe in automatico, ma solo in seguito ad una nostra denuncia”.
Resta convinta che Giacomo non abbia ricevuto il dovuto supporto?
“È l’intero ingranaggio che non funziona. Non solo le carceri e le Rems, le falle si trovano a monte. Cps, pronto soccorso e Serd, ad esempio, dovrebbero lavorare in rete. Invece, l’impressione è che manchi un coordinamento. La psichiatria forense? Dovrebbe fare da collante fra il carcere ed eventuali misure alternative. Troppo spesso le famiglie si ritrovano sole ad affrontare situazioni tra le più complesse, senza essere ascoltate e sostenute”.
Secondo lei il suicidio di Giacomo poteva essere evitato?
“Mio figlio era in attesa dell’inserimento in una Rems, ma tempi e modalità non erano note. Era come in un limbo. Intanto, in carcere aveva manifestato pesanti segnali di malessere, arrivando a gesti di autolesionismo come tagliarsi le vene dell’inguine e degli avambracci. Quella volta si era salvato per un soffio. Dopo questi episodi, percepiti come rimostranze, veniva messo in isolamento, mentre le sue erano in realtà forti e disperate richieste di aiuto. Quattro giorni prima del suo suicidio si era tolto la vita un giovane detenuto egiziano: Giacomo lo conosceva e ne era rimasto profondamente scosso. I campanelli d’allarme c’erano tutti, ma il suo disagio non è stato intercettato, né si sono messe in atto misure di prevenzione”.
Cosa ricorda di quel giorno?
“Giacomo si è tolto la vita di notte, noi lo abbiamo saputo solo la mattina seguente, tramite il nostro legale. Poi c’è stata la telefonata di un’educatrice del carcere. Ci saremmo aspettati maggiore partecipazione, anche dal punto di vista umano”.
Quali ricordi le ha lasciato suo figlio?
“A suo modo, era un ragazzo geniale, con una straordinaria manualità. Ai suoi compagni di cella aveva insegnato a fare i tatuaggi con materiali di fortuna. Un tempo, cantava tra le voci bianche del Conservatorio e suonava il flauto traverso”.