
Angelo Avelli promotore del gruppo “Questa città non è un albergo“
MILANO – I rincari nel periodo olimpico sono l’esempio lampante dei tentativi di “massimizzare i profitti” sfruttando il business degli affitti brevi che “sottrae risorse” a chi cerca soluzioni abitative stabili (e accessibili) in città. Sono circa 18.300, secondo l’ultima rilevazione sulla piattaforma Inside Airbnb, gli alloggi sul mercato a Milano con la formula dell’affitto breve, con un prezzo medio di 171 euro a notte. Angelo Avelli è tra i promotori della campagna “Questa città non è un albergo“, che unisce una rete di associazioni e movimenti.
Dopo gli appelli e le manifestazioni c’è stato un cambio di passo da parte del Comune?
“Sugli affitti brevi non è stato fatto nulla, e il tema è passato un po’ in secondo piano dopo la crisi politica conseguente alle inchieste sull’urbanistica che hanno fatto emergere una città regalata ai privati. Noi continuiamo a chiedere case popolari e affitti calmierati, mentre invece Sala pensa ancora alla vendita dello stadio. È evidente che le posizioni non si incontrano”.
Che cosa potrebbe fare il Comune?
“Basterebbe seguire l’esempio di città come Bologna, Firenze, Roma o Napoli, che hanno fatto passi avanti su tavoli e regolamenti locali. A Milano, invece, dicono che non possono fare niente. Non è vero, si tratta di una risposta antistorica perché altri enti si sono mossi. In questa città non sono stati neanche capaci di una misura minima come togliere le cassette per le chiavi dalle strade, nonostante gli annunci”.
A livello nazionale ci sono nuove regole come il Codice identificativo obbligatorio. Sono sufficienti?
“Questo pezzo di mercato resta in un’area grigia, senza sufficiente regolamentazione, e questo è tra i fattori che continuano a far salire i prezzi degli affitti”.