
Ramy era a bordo del T-Max che si è schiantato la notte del 24 novembre
Milano – Le valutazioni si giocano sul filo della distanza tra auto e scooter, e quelle della Procura divergono rispetto alle conclusioni tracciate dallo stesso consulente dei pm, l’ingegnere Domenico Romaniello, che aveva rilevato un’unica responsabilità nell’incidente che ha provocato la morte del 19enne Ramy Elgaml: la fuga e la guida pericolosa dell’amico Fares Bouzidi. La scelta di chiudere le indagini contestando il reato di omicidio stradale non solo a Fares ma anche al carabiniere al volante nella drammatica fase finale dell’inseguimento, con un sostanziale concorso di colpa, è legata anche a un’integrazione di Romaniello successiva al deposito della sua consulenza, con le risposte alle controdeduzioni dei consulenti delle altre parti, in particolare la difesa di Fares e il legale della famiglia di Ramy. Consulenti che erano arrivati a conclusioni diverse, rilevando irregolarità da parte dei carabinieri all’inseguimento.

A dirimere la questione, nel caso di una richiesta di rinvio a giudizio per entrambi, potrebbe essere una perizia super partes nella fase dell’udienza preliminare per chiarire diversi punti tra cui quello della distanza. "La Procura ha tenuto conto anche dei nostri rilievi e dei racconti dei testimoni oculari – spiega l’avvocata Debora Piazza, difensore di Fares – e adesso attendiamo gli esiti anche dell’indagine sul depistaggio e sulla cancellazione dei video. Di certo la morte di Ramy poteva essere evitata, quell’inseguimento non aveva ragione di esistere".
Protestano, invece, e parlano della ricerca di un "capro espiatorio" i sindacati dei carabinieri e delle forze dell’ordine. Così come arrivano bordate ai pm dal centrodestra. "Come da copione – sottolinea Maurizio Gasparri, presidente dei senatori di Forza Italia – la magistratura politicizzata perseguita le forze dell’ordine". Il deputato di FdI Riccardo De Corato esprime "pieno sostegno" al carabiniere, e si dice "indignato" per le conclusioni della Procura. I pm Marco Cirigliano e Giancarla Serafini nell’imputazione per il militare mettono in luce proprio la distanza "inidonea", meno di 1,5 metri, tenuta dall’uomo al volante della Alfa Romeo Giulietta, troppo vicino alla moto, prima dell’urto tra via Ripamonti e via Quaranta.
Il loro consulente, l’ingegnere Romaniello, nella relazione depositata a marzo arrivava però a conclusioni differenti: se "la distanza tenuta tra i due mezzi fosse stata maggiore" l’evento "avrebbe potuto avere una differente evoluzione, ma il caso" non è "di normale incidente stradale, bensì rientra nel contesto di un’operazione di pubblica sicurezza" che, secondo l’esperto, sarebbe stata eseguita correttamente dai militari, anche perché "nessuna procedura disciplina e potrà mai disciplinare in maniera rigida la distanza di sicurezza da dover mantenere nei casi di inseguimenti di malviventi".
Agli atti, però, è finita anche anche la deposizione di un testimone oculare. "Credo, sulla base di quello che ho visto – ha spiegato – che i carabinieri non si aspettassero che a quella velocità i ragazzi inchiodassero e provassero a svoltare (...). Siccome erano molto vicini non c’è stato tempo per la pattuglia di reagire e frenare in tempo". Dalla famiglia di Ramy nessun commento. Ma parla il portavoce della comunità egiziana di Milano, Aly Harhash, in contatto con i parenti. "Continuiamo ad avere fiducia nella Magistratura. Ci sono dei dubbi ancora da chiarire: dov’è il giubbotto di Ramy? C’erano delle piume incastrate sotto la targa dell’auto dei carabinieri: arrivavano da lì? Smaltito subito pure il palo del semaforo contro cui lo scooter si è schiantato. Perché questa fretta?". Quanto alla possibilità di rinvio a giudizio anche per il carabiniere, "non prendiamo al momento posizione. Ne parleremo quando sapremo la verità".