
Papa Leone XIV con Antonia, la madre di Acutis
Roma – La santità, parola antica e quasi impronunciabile nel nostro lessico secolarizzato, resta tuttavia un enigma che attraversa i secoli: è l’irruzione di un senso più grande dentro la fragilità dell’umano, il segno che non tutto può essere calcolato o replicato. In un tempo in cui l’intelligenza artificiale apprende, imita, traduce persino i moti dell’anima, si fa urgente chiedersi: che cosa significa oggi essere santi?

È da questa domanda che affiora la figura di Carlo Acutis. Non tanto come icona da venerare, ma come provocazione: un adolescente cresciuto nella cultura digitale che seppe guardare oltre lo schermo e usare la tecnologia come strumento di bene. La sua esistenza ci costringe a misurarci con la possibilità della santità in un’epoca che sembra aver smarrito persino il linguaggio per nominarla.
Essere santi oggi non equivale a vivere fuori dal mondo, ma a restare radicalmente dentro di esso senza esserne inghiottiti. Significa custodire ciò che nessun algoritmo potrà generare: il dono, la gratuità, la libertà di amare. Anche chi non crede può riconoscere qui un valore universale: la resistenza a una società che misura l’uomo solo in termini di efficienza e utilità.
Forse la santità contemporanea non è che questo: testimoniare, con la propria vita, che l’umano vale più della sua copia digitale, che la vulnerabilità è più eloquente della perfezione artificiale.
E forse è proprio qui che si misura la sfida del nostro tempo: nell’era in cui le macchine promettono l’immortalità dei dati, la santità annuncia l’eternità dell’anima; nell’epoca in cui l’intelligenza artificiale produce copie infinite, la santità ricorda l’unicità irripetibile di ogni volto. In futuro l’uomo, se vorrà salvarsi, dovrà scegliere di restare più fragile delle sue macchine, ma più libero.
E quando l’ultima voce artificiale si spegnerà, resterà solo questo: il canto indomabile dell’umano che osa farsi dono, scintilla di luce che nessun algoritmo potrà mai generare né spegnere.