
Tony Hadley, 65 anni, frontman degli Spandau Ballet dal 1979 al 1990 e dal 2009 al 2017 Sarà a Bollate il 13 luglio a Sondrio e Mantova in settembre
Milano – “Anthony Patrick Hadley suona molto elegante, ma nessuno mi chiama così”. Già, perché il suo nome è Hadley, Tony Hadley. “Anzi, Antonio, come dite in Italia” scherza sulla poltrona di “Soundcheck”, il format musicale disponibile sulla pagina web e sui social del nostro giornale, la voce di “True”, “Gold”, “I’ll fly for you”, in concerto quest’estate a Villa Arconati di Bollate il 13 luglio, alla Versiliana di Marina di Pietrasanta il 27 agosto, al Teatro Sociale di Sondrio il 2 settembre e all’Esedra di Palazzo Te, a Mantova, il 3.
Concerti con cui festeggia 45 anni di carriera. Potrebbe riassumerli in tre ricordi?
“Innanzitutto, la firma del mio primo contratto discografico, perché senza quello non c’è carriera. Poi la partecipazione al progetto Band Aid (il brano corale “Do they know it’s Christmas“, ndr) e il Live Aid, esperienza straordinaria che non capiterà più. Terzo… Beh, essere riuscito a sopravvivere come artista solista”.
Nel 1981 gli Spandau Ballet tennero i loro primi concerti italiani. Cosa ricorda?
“Gli Spandau Ballet non erano molto famosi in Italia a quel tempo. Ricordo che a Milano il posto in cui suonavamo si trovava vicino al locale dove avrebbe dovuto esibirsi Iggy Pop, che però all’ultimo cancellò l’esibizione. Così il suo pubblico venne al nostro concerto e, trattandosi di punk, fu… come dire, una bella rissa. Finito lo show, uscendo dal locale, ne trovai alcuni in strada che ancora se le davano di santa ragione”.
Ha cantato con diversi artisti italiani, a cominciare da Caparezza, Nina Zilli, Arisa, Elio e le Storie tese. Cosa le hanno lasciato queste esperienze?
“Debbo dire che mi sono sempre divertito. Mi piace lasciarmi influenzare dal vostro modo di cantare. E poi il pubblico italiano ama le melodie potenti, come me. Un artista con cui mi sono spinto molto avanti con la collaborazione, scrivendo, interpretando e girando il relativo video, è Caparezza, artista gentile e divertente. Realizzando assieme “Goobye malinconia“ ho scoperto una persona davvero amabile”.
Due anni fa ha partecipato ad “I was only sixteen”, canzone scritta dai giovani pazienti della Pediatria oncologica dell’Istituto nazionale dei Tumori di Milano.
“A tirarmi dentro il progetto è stato Faso, bassista di Elio e le Storie tese. La musica era buona, ma a convincermi sono state le parole scritte da bambini che stavano attraversando l’orribile esperienza delle cure anticancro. L’ho trovata una bellissima cosa da fare, anche perché i testi scritti dai giovani pazienti erano fantastici, venivano dal cuore”.
Ha avuto tre matrimoni: due con le sue mogli e uno con la band. Basta così?
“Non me ne servono altri. Ho una bella sintonia con con le madri dei miei cinque figli, che pure fra loro vanno d’accordo. Stessa armonia l’abbiamo coi nostri ragazzi. Con la band ho finito per divorziare. Pure quello col gruppo è un matrimonio, con differenze di carattere, di opinioni, di personalità. E questo può portare frizioni”.
A proposito di famiglia, lei è diventato nonno da poco.
“Solo da un mese. Non mi sento abbastanza in là con gli anni per essere nonno, ma è una sensazione fantastica lo stesso. Mia figlia Toni e suo marito Andy mi hanno fatto questo regalo, il nipote si chiama Frederick, anzi Freddie, ed è davvero bellissimo”.
L’ultimo capitolo della sua discografia, “The mood I’m in”, è un album con big band. Preferisce il Tony crooner o quello rocker?
“Difficile rispondere. Probabilmente entrambi, perché amo Frank Sinatra, Tony Bennett, Ella Fitzgerald, Sammy Davis jr., Dean Martin, ma sono cresciuto col pop-rock di Elton John, Rod Stewart, Roxy Music, David Bowie, i Queen. Quindi mi sento fortunato di poter spaziare in entrambi gli ambiti”.
L’imprinting della sua vita fu un concerto di Sinatra alla Royal Albert Hall a 17 anni.
“Andai ad ascoltarlo con mia madre Josephine, che oggi ha 92 anni ed è ancora grandiosa, riuscii a stringergli la mano e ad avere una breve conversazione. Mi chiese cosa facessi, risposi che andavo a scuola, cantavo in una band e un giorno mi sarebbe piaciuto pure a me farlo lì. Beh, sei anni dopo è accaduto”.
Il 19 settembre si apre nei locali del Design Museum di Londra una mostra sul Blitz, il locale in cui siete nati.
“È una grossa “exhibition“. Con gli altri ci conoscevamo dai tempi della scuola, ma il Blitz è stato il posto dove è iniziato tutto. A quei tempi non c’erano i social media né cellulari, ma gente che si vestiva in modo elegante, suonava bella musica elettronica. Anni proprio belli”.
Nel 2007 ha fatto pure l’esperienza del musical. Mai pensato di ripeterla?
“Ho interpretato per tre mesi e mezzo Billy Flynn in “Chicago“. Penso fosse il posto giusto al momento giusto. Mia figlia Zara, che ora ha 18 anni ed ha finito le scuole, era appena nata e quello rappresentò per me un modo di lavorare rimanendo vicino alla famiglia. Anche se poi mi hanno proposto altri lavori teatrali, preferisco andare in giro a cantare. Mi piace la libertà del rock’n’roll. Il musical l’ho fatto, è andata bene, e sono felice così”.