
Milanese doc, comico, cabarettista, conduttore televisivo e attore italiano: tutto questo è Enrico Bertolino, 64 anni
Milano, 27 maggio 2025 – Comico, cabarettista, conduttore televisivo e attore italiano. Anche manager. Ma soprattutto, un uomo che “fa del bene perché lo fa stare bene”. È Enrico Bertolino che, tra termini dialettali e ricordi d’infanzia, svela il suo attuale impegno nel sociale e riporta qualche considerazione sulla società odierna.
Milanese Doc, vissuto sempre a Milano, il papà parlava in dialetto.
""Ti tiro uno slavadent” mi diceva...il dialetto è fatto di fonemi. “Slavadent” fa già paura quando lo dici, ma non è come dire schiaffo, pugno che rimandano alla violenza. Lo slavadent è dato per affetto, come quando mia madre tirava le ciabatte ai figli...”.
Non ci sono più i genitori di una volta.
“Ma neanche i giovani di una volta...".
È un gatto che si morde la coda.
“Adesso abbiamo bisogno del supporto psicologico....".
Ha una figlia di 16 anni. Come sono i giovani oggi?
"I giovani li guardo con ammirazione perché sono giovani prima di tutto. Devono essere portatori di linguaggi nuovi. Loro sono la speranza del futuro, come diceva papa Francesco. Anche se hanno di fronte un'epoca terrificante rispetto alla nostra, e lo sanno, dobbiamo vivere di speranza e non di negatività... Non devono occupare un paese, ma far sì di occuparlo con il lavoro, con la dignità che il lavoro dà, con la curiosità, con la voglia di viaggiare”.
Tirandosi su le maniche come la Madonnina del Duomo?
“Sì. E poi diventare cosmopoliti".
Bocconiano, un'esperienza manageriale, poi “Seven Show” su Italia 7, l’esordio nel mondo dello spettacolo. Un caso o una passione che aveva nel cuore?
"Ho inseguito nel tempo una passione che avevo, sa… il dramma dei bancari… Tutto iniziò a 37 anni quando mi chiesero di fare una prova per scaldare il pubblico ad un cabaret e questo mi portò a iniziare la mia nuova carriera”.
E qual è stata la chiave di volta per cui ha deciso di lasciare l’impiego in banca?
"È stata una scelta difficile… pensi che il mio papà, buon’anima, è mancato pensando che fossi ancora in aspettativa in banca, perché i miei genitori erano terrorizzati dal fatto che decidessi di perdere il posto fisso. L’ho fatto perché mi sentivo di dire di no. Poi, però, ho mantenuto entrambe le attività, ad oggi svolgo, infatti, anche attività di formazione e consulenza”.
Insomma, non si annoia.
"No. Ci vuole anche un po' di allegria, la risata… ma, come il vino, con il retrogusto”.
Cioè una risata non fine a se stessa?
"Esatto, non solo solo ridere, ma una risata che abbia un senso, un retrogusto che magari può essere anche amaro, perché a volte il retrogusto è amaro. A me piace quel tipo di cabaret”.
Milano è una città sorridente o si può migliorare?
«È la città con il retrogusto. Ci sorride con la malinconia e la nostalgia, che sono due componenti essenziali della comicità e dell'allegria. L'allegria non deve essere smodata, un'allegria che porti con sé un po' di malinconia. E la malinconia qua a Milano ce l’abbiamo... per il nostro dialetto, per le nostre tradizioni, per i nostri quartieri. Io nasco al quartiere Isola, in via Volturno, e ora vivo in via Confalonieri, che fa angolo, sempre all'Isola. Manteniamo le tradizioni… mi dispiace vedere chiudere i negozi perché erano punti di aggregazione. Che le piazze diventino animate”.
Impegnato nel sociale. Lo scorso marzo per la seconda volta ha trasformato l’Ospedale Niguarda in teatro solidale a sostegno della ricerca sulla SLA del Centro Clinico NEMO.
"Il mio impegno nasce con il centro NEMO, presente in tutta Italia, da una chat di tifosi, conosciuti e non, che si chiama InterNati. Scommettiamo al nostro interno sulle partite e il capitale finale viene pagato realmente dagli affiliati e devoluto a delle Onlus scelte da noi stessi, tra cui NEMO ovviamente. A me piace fare del bene perché mi fa stare bene. Il teatro solidale è stata un’esperienza meravigliosa fatta con tanto entusiasmo”.
Cosa pensa dell'intelligenza artificiale?
"Ci toglierà dalle scatole tutti i lavori ripetitivi. Siamo agli inizi e bisogna preparare le persone a questo, le persone vanno formate. Nelle banche stanno chiudendo gli sportelli in virtù di lasciare aperti quelli automatici. Lo sportello automatico può funzionare, però quando io ancora oggi vedo entrare le persone di una certa età, che si guardano in giro, non vedono nessuno, iniziano a piangere, poi arriva una persona da dietro il bancone e dice “Signora l'aiuto io”, allora, dico che anche l'intelligenza artificiale ha bisogno della sana ignoranza naturale o dell'intelligenza artigianale, cioè di persone che con le mani fanno le cose. Aggiungo che se noi abbiamo avuto il vaccino del Covid è grazie all'intelligenza artificiale perché ha shakerato i dati, ha velocizzato i processi, altrimenti ci sarebbero voluti sei anni. Noi l'abbiamo avuto in due. Questo per dire che anche l'intelligenza artificiale ha i suoi vantaggi, che vanno capitalizzati. Il problema è che i software stanno diventando autogenerativi. Secondo me quello è il pericolo, poi tutti i film sul catastrofismo mondiale diventano reali. L'importante è non escluderci. Io ho più paura di quelli che si tolgono, che non partecipano più rispetto a quelli che mi tolgono la macchina”.