
Adrien Brody (Oscar come miglior attore protagonista) e Felicity Jones in una scena di ’The Brutalist’
Milano – Renderebbe interessante pure la vita di un giornalista culturale. Figurarsi se crea da zero tale László Tóth, immaginario architetto Bauhaus immigrato negli Usa, protagonista di ’The Brutalist’: 216 minuti di stile e narrazione oversize, tre premi Oscar e Leone d’Argento a Venezia. Da allora Brady Corbet è il nuovo grande nome del cinema indipendente. Prima la carriera d’attore, iniziata da giovanissimo (Haneke, Lars von Trier); oggi la regia. Un cambio di visione per questo trentasettenne dell’Arizona. Cresciuto a pane, antagonismo e cinefilia. In queste ore lo si incrocia a Milano grazie alla Cineteca: tre giorni di incontri all’Arlecchino. Dove stasera si rivede ’Vox Lux’ seguito da un dialogo col regista, mentre domani sarà lui a introdurre ’L’infanzia di un capo’.
Corbet, perché László Tóth?
“Per il desiderio che avevo da tempo di fare un film sull’architettura e sul design del Novecento europeo. È quindi un personaggio emerso da quell’immaginario, insieme al confronto con le mie origini famigliari, che da parte di mamma si legano all’Ungheria, sul confine con la Serbia”.
Come descriverebbe il suo cinema?
“Il regista Jafar Panahi ripete spesso che se si potesse descrivere un film, sarebbe inutile realizzarlo. Un pensiero che faccio mio. Ma è vero che per il momento tutte le mie opere hanno avuto a che fare con la Storia, come se si ribadisse una preoccupazione tematica”.
Che rapporto ha con l’IA?
“Voglio avere tutti gli strumenti utili nella mia cassettina. Perché mi piace girare su pellicola, è la cosa migliore. Ma ad esempio sono rimasto affascinato dal documentario Netflix ’Notte sul pianeta terra’, filmato al buio. Ho chiesto come l’avessero realizzato e mi hanno spiegato che la chiave è stata attendere le notti di luna piena, cosa non facilissima se devi pianificare 35 giorni di riprese…”.
Quindi nessun dogma?
“No, io esploro tutto. E non mi interessa se uno strumento proviene da 75 anni fa o sembra qualcosa di un futuro lontano. Mentre mi inquieta di più osservare anche fra i giovani la mancanza di visioni. Credo sia l’effetto degli algoritmi che continuano a rimandarci in loop verso cose già viste e conosciute. Grave per il cinema, gravissimo se si parla di informazione”.
Quindi che fare?
“Gli artisti hanno l’obbligo morale di rompere gli schemi. Il prossimo film scritto con mia moglie Mona Fastvold è totalmente analogico, riguarderà la storia della California del Nord – dalla corsa all’oro alla Silicon Valley – e sarà X-rated, per adulti. Proprio per rompere quelle barriere che sono nate anche da esperienze importanti come il MeToo, movimenti che però col tempo sono diventati opachi negli obiettivi, spingendo i liberali a diventare più conservatori dei conservatori. E così oggi prima ancora che il film esista, subito ti chiedono qual è la tua agenda politica, il messaggio. Ma se il cinema ha un’agenda diventa propaganda. Le arti dovrebbero muoversi al di fuori della politica”.
Quello che però sta facendo è un discorso molto politico.
“Infatti sono così a sinistra che rischio di cadere nell’Oceano Pacifico”.
Come si riesce a rimanere indipendenti e anticapitalisti all’interno del sistema?
“È un qualcosa in cui sono cresciuto, sono a Hollywood da quando avevo sette anni e ne capisco ogni sfumatura, mi sembra di conoscere tutti negli studi e nelle agenzie. E infatti il problema non è con le persone ma con qualcosa di più strutturale legato a diversi fattori: dal ruolo della finanza allo streaming, la politica, i costi dei film. Ma bisogna trovare il modo di collaborare e capirsi. Dopo gli Oscar mi sono arrivate proposte per grandi produzioni hollywoodiane ma mi sembra chiaro che non mi interessi nulla di remake e supereroi”.
La tecnologia è uno strumento di democratizzazione?
“Forse. Certo aiuta ad abbattere i costi. Ma non so ad esempio se la democratizzazione dell’immagine sia stata finora una cosa positiva per l’immagine stessa. È però importante indagarne il potenziale”.
Come si sopravvive a un’educazione hollywoodiana?
“È un mondo che non ha mai davvero riflesso quello che leggevo o che ascoltavo. Allo stesso tempo mi ha permesso di lavorare con persone straordinarie. Il solo fatto però di aver vissuto solo pochi anni a Los Angeles, dimostra come non l’abbia mai considerata la mia casa”.
È un cinefilo incallito come raccontano?
“Sono cresciuto guardando di tutto. L’ispirazione principale a livello pratico mi proviene però da quei film di grande inventiva e ambizione, a fronte di budget ridicoli. Non mi fraintenda: io adoro Pressburger o le costosissime produzioni hollywoodiane. Ma sono più interessato a quelle cose meravigliose fatte con due soldi fra gli anni 60 e 70. Un po’ come succedeva anche nei 90, sperimentando sui nuovi strumenti”.
Un film che le ha cambiato la vita?
“’Andrej Rublev’ di Tarkovskij”.
Conosco tanti che risponderebbero ’Melancholia’: come fu il set con Lars von Trier?
“Lars è incredibilmente dolce e divertente, fu un’esperienza eccitante nonostante fossimo in uno dei luoghi più depressivi al mondo: Trollhättan, in Svezia. Un paio di mesi di riprese, lavorando con John Hurt o Charlotte Rampling. Una fortuna immensa”.