Intimidazioni, “pizzo” e omertà. Così agiva la famiglia Bandiera

Rho, le motivazioni della sentenza che ha condannato i boss della “locale” di ‘ndrangheta

Uno dei frame dell'Operazione della Dda dell'anno scorso

Uno dei frame dell'Operazione della Dda dell'anno scorso

Milano, 15 febbraio 2024 – Lo “sfruttamento della forza di intimidazione, ben conosciuta e temuta dalle vittime, ha avuto il suo tipico riflesso esterno in termini di assoggettamento ed omertà”, dato che “tutte le persone offese” si sono “ben guardate dallo sporgere denuncia per le violenze” e “minacce subite”, anche perché “terrorizzate”.

Lo scrive la gup di Milano Anna Magelli nelle motivazioni della sentenza con cui, il 14 novembre, nel processo abbreviato a carico di una quarantina di imputati ha condannato i presunti boss della ‘ndrangheta della “locale” di Rho, nel Milanese.

Tra gli altri sono stati inflitti 10 anni e 10 mesi a Gaetano Bandiera, 75 anni, uno degli storici boss della mafia calabrese in Lombardia. Secondo le indagini della Squadra mobile milanese e del pm della Dda Alessandra Cerreti, il clan avrebbe agito sia con arcaici metodi intimidatori, come “teste di maiale” lasciate fuori dalle porte, il “controllo del territorio” col “pizzo”, traffici di cocaina e armi, ma anche con la più moderna “vocazione imprenditoriale”.

La “locale” di Rho

La giudice nelle oltre 600 pagine di motivazioni parla della “ricostituzione della locale di Rho, sebbene in composizione soggettiva molto diversa da quella storica, rispetto alla quale ricorre soltanto la figura” di Gaetano Bandiera e del figlio Cristian, condannato a 16 anni e 8 mesi.

La gup, riconoscendo l'imputazione di associazione mafiosa, ha assolto, però, gli imputati dall'accusa di associazione finalizzata al narcotraffico, condannando per singoli episodi di spaccio. Per Gaetano Bandiera, difeso dall’avvocato Amedeo Rizza, la Procura aveva chiesto 16 anni ed è arrivata una condanna a 10 anni e 10 mesi, con l'assoluzione anche per alcuni episodi di estorsione e pure dal caso di una presunta falsa invalidità con cui, secondo l'accusa, sarebbe riuscito (fu condannato ad oltre 13 anni dopo la famosa operazione “Infinito” del 2010) ad ottenere il differimento pena e ad uscire dal carcere simulando “difficoltà motorie”. Secondo il gup, da parte sua non ci sono state “dichiarazioni mendaci” sulle sue condizioni.