
Giuseppe D’Amico il pregiudicato ventinovenne arrestato dalla polizia locale di Milano
Milano, 14 marzo 2023 – “Ho assunto cocaina dopo pranzo. Non ricordo l’ora precisa. Mi sono fermato a pochi metri, 50 metri, e ho lasciato lì auto e ragazza perché ero spaventato per l’affidamento e per tutto il casino che avevo combinato. Dopo mi sono lavato e avevo intenzione di andare a costituirmi. Poi non ho avuto il tempo: sono arrivati a casa mia madre e mio padre, e poi sono venuti a prendermi". È uno dei passaggi più significativi della confessione di Giuseppe D’Amico, il pregiudicato ventinovenne arrestato dalla polizia locale di Milano per omicidio stradale e omissione di soccorso: c’era lui alla guida della Bmw che alle 3 della notte tra giovedì e venerdì ha travolto e ucciso il trentatreenne ecuadoregno Juan Carlos Quinga Guevara, che stava attraversando sulle strisce pedonali con il suo monopattino elettrico a semaforo lampeggiante. C’era lui sì, nonostante avesse la patente revocata dal 25 luglio 2022 ("È una colpa che mi assumo") e il divieto di uscire di casa dalle 22 alle 6 come affidato in prova ai servizi sociali.
"Stavo venendo da viale Famagosta, questi ragazzi erano 2-3 ed erano tutti sulle strisce pedonali – ha spiegato nell’interrogatorio di garanzia al gip Tommaso Perna, che ieri ha disposto che resti a San Vittore in custodia cautelare –. Il primo è passato e io ero nei limiti di velocità perché c’è la telecamera in quella zona. Il primo è passato sulle strisce e io suonavo e ho lampeggiato. Ero ubriaco e quindi non vedevo lucidamente: l’ultimo l’ho visto all’ultimo. Io avevo rallentato dopo che è passato il primo, ho mollato l’acceleratore, ma la macchina andava comunque: non ho frenato da lasciare segni per terra, così ho urtato l’altro monopattino che stava attraversando la strada e l’ho urtato con il faro anteriore sinistro della mia auto". In quel momento, "in panico", D’Amico è fuggito a piedi, lasciando lì la compagna R.C. a prendersi la colpa: "La ragazza mi ha detto che si sarebbe assunta lei la responsabilità perché sapeva che io ero in affidamento, ma nessuno dei due in quel momento aveva compreso la gravità della situazione". Un depistaggio disinnescato in parte dal successivo cambio di versione di R.C. (indagata per favoreggiamento) in parte dalla presenza di due testimoni oculari: un collega connazionale di Quinga Guevara, il cinquantunenne H.D., che lo precedeva di una decina di metri in monopattino, e un automobilista di 34 anni, che si è accorto subito dell’incidente.
Quest’ultimo, in particolare, ha riferito agli agenti del Radiomobile di essersi avvicinato immediatamente al luogo dell’investimento, di aver chiamato il 112 e di aver visto solo la ragazza in macchina, sul lato passeggero: "Parlava al telefono, dicendo di aver necessità delle chiavi della macchina – ha riferito agli investigatori –. Io chiedevo alla donna se si sentisse bene e notavo che l’auto era con le quattro frecce, non riuscivo a parlare troppo perché continuava a urlare al telefono. Dopo circa 5-10 minuti, notavo un uomo bianco di circa 30-35 anni, alto circa 1,75 metri, magro con capelli corti e neri, barba molto corta". Quell’uomo era D’Amico, che è tornato sui suoi passi per lasciare le chiavi della Bmw a R.C. e allontanarsi nuovamente di corsa verso la sua abitazione in zona Barona. Per il giudice, il ventinovenne deve restare in cella, come richiesto dal pm Francesco De Tommasi: "Ha ampiamente mostrato di non essere in grado di rispettare alcuna prescrizione e regola di civile convivenza, oltre che giuridica e, prima ancora, di banale umanità".