
Peter Gabriel, 75 anni, ha cofondato i Genesis nel 1967
Con la sua immagine Peter Gabriel ha definito un suono ed un’epoca. E l’ha fatto usando il palco o il set fotografico come spazio narrativo per trasformarsi nel personaggio, nel medium, nel narratore del suo essere popstar.
Qualcuno ci ha ironizzato sopra dicendo che quando ai tempi dei Genesis ti compariva davanti con le ali da pipistrello dietro la testa non sapevi mai se stesse lì per cantare “Watcher of the skies” o per combattere Batman, ma i suoi travestimenti, più che eccentricità, erano estensioni simboliche di un messaggio a cui, seppur con maggior sobrietà, non avrebbe rinunciato neppure una volta abbracciata l’attività solistica, come ricorda la stagione di “Shock the monkey” (Sanremo 1983 incluso).
Ed è proprio su questo che alla Fondazione Luigi Rovati focalizza il suo interesse in “Peter Gabriel. Frammentazione dell’identità”, terzo (ed ultimo) capitolo del ciclo “Echoes. Origini e rimandi dell’art rock britannico” curato dallo storico dell’arte Francesco Spampinato. Un omaggio all’avanguardia visionaria dell’“arcangelo Gabriel”, ma anche di Storm Thorgerson, responsabile creativo di quello Studio Hypgnosis che tanta parte ha avuto nella storia del rock, celebrato pure tre mesi fa da “Pink Floyd, Yes, Genesis. Nuove percezioni della realtà”, secondo momento di questo percorso espositivo dedicato all’incontro tra avanguardie artistiche e industria culturale dall’istituzione ospitato nei locali di Corso Venezia.
In mostra ci sono tre dei quattro album senza titolo (convenzionalmente chiamati “Car”, “Scratch” e “Melt”) dati alle stampe da Gabriel nel quinquennio ’77-’82, debitamente autografati, ci sono foto e videoclip che lo vedono passare da un personaggio all’altro del suo osannato repertorio, dalla volpe di “Foxtrot” al trucco etnico del videoclip della stessa “Shock the Monkey”. Non manca uno scatto di quell’avventuroso Sanremo ’83 (molti se lo ricordano ancora aggrappato alla liana schiantarsi su quel palco dell’Ariston su cui sarebbe tornato nel 2003 con tanto di Zorb Ball al seguito) firmato da Guido Harari.
Il suo modo d’intendere la performance, l’uomo di “Supper’s ready” lo chiarì qualche anno dopo al giornalista-biografo Armando Gallo, ammettendo di credere fermamente "che la maschera sia uno strumento attraverso il quale l’artista può esternare alcune parti della sua personalità, piuttosto che un mezzo dietro cui nascondersi".
Proprio per questo “Peter Gabriel. Frammentazione dell’identità” espande il suo campo d’azione utilizzando pure altri riferimenti, compreso il ritratto fotografico di Rrose Sélavy realizzato da Man Ray nel 1921 e le opere di Keith Haring e Kiki Smith, dedicate alla fragilità dell’essere umano.