
Carlo Mosca, medico del 118 di Brescia
Brescia, 1 maggio 2025 – La sua storia aveva fatto il giro d’Italia, in un momento in cui il Covid picchiava duro. All’epoca primario del Pronto Soccorso di Montichiari, l’allora 48enne dottor Carlo Mosca il 21 gennaio 2021 finì in manette per duplice omicidio. Rimase 522 giorni ai domiciliari. Per l’accusa durante la prima ondata pandemica aveva soppresso due pazienti (Angelo Paletti, 79 anni, di Isorella, e Natale Bassi, 61, di Ghedi) con iniezioni letali di Siccinilcolina e Propofol per alleggerire il reparto. La pubblico ministero Federica Ceschi aveva chiesto una condanna a 24 anni. Mosca ha però dimostrato la sua piena innocenza in primo e secondo grado: fu calunniato da due infermieri che si inventarono una denuncia per dissidi lavorativi, conclusero i giudici, i quali disposero la trasmissione degli atti in Procura. Ora il professionista, in forza al 118 del Civile di Brescia, si è visto riconoscere 104.400 euro di indennizzo per ingiusta detenzione.

Dottor Mosca, come ha preso la notizia?
“Non mi è mai interessato l’aspetto economico. Mi fa piacere che per stabilire l’importo non sia stato fatto un mero calcolo matematico ma una valutazione più ampia. Fin da subito chi di dovere non fu accorto nel soppesare le prove. Una settimana dopo l’arresto iniziai a mostrare le mie perplessità. Da quella foto agli atti, scattata con il cellulare a un cestino dei rifiuti che era stranamente senza coperchio e in cui apparivano confezioni vuote di Succinilcolina e Propofol girate in modo che si vedessero bene, mi fu tutto chiaro”.
La misura fu però confermata dal gip e dal Riesame.
“Sì, e fu una grossa batosta. Avevo già fatto presente che era palese la manovra organizzata in malomodo. Gli infermieri furono anche risentiti dagli inquirenti. Ma nulla”.
Cosa le è pesato di più in quei mesi terribili?
“I tempi lunghi della giustizia. Io non volevo un processo in abbreviato, volevo andare in Assise: in scienza e coscienza sapevo di essere innocente e intendevo dimostrarlo. Ma la Corte ha un’unica sezione, era ingolfata, ci furono dei rinvii”.
Qual è stato il periodo più buio?
“I primi mesi trascorsi ai domiciliari ristretti nel mio paese di residenza, in provincia di Cremona, quando la mia compagna e mia figlia erano nel Mantovano. Non vederle mi è pesato enormemente. La bambina aveva 9 anni, in 18 mesi l’ho incontrata sei volte, dalle 15 alle 17. Mi furono sequestrati tutti i dispositivi elettronici, non potevo chiamarla. E a scuola la prendevano in giro dicendole che aveva il papà in galera. Poi ho dovuto rinunciare ai miei incarichi, alle cattedre universitarie”.
Come ha fatto a non perdersi d’animo?
“Ho le spalle larghe, so quanto valgo. I miei risultati me li sono guadagnati tutti, vengo da una famiglia semplice. Ho avuto l’appoggio della famiglia e di mio padre. Vivevo da lui, e alla fine sono anche contento del tempo trascorso insieme, visto che oggi non c’è più. Ci chiudevamo in garage con la radio a tutto volume e ci davamo al restauro di vecchie bici e vecchi motorini, una passione condivisa”.
E sul lavoro? Al rientro ha vissuto un clima di sospetti?
“Non c’è stato un giorno che abbia pensato di aver perso un collega o un paziente. Al Civile mi hanno accolto con lenzuola appese alle finestre con scritto ‘Bentornato dottore’. Il mio pane quotidiano sono i malati. Li seguo, vado a trovarli. C’è una bella differenza tra il curare e il prendersi cura. E loro lo sentono”.
Chi erano quei due infermieri che l’hanno denunciata?
“Uno era al triage, l’altro era arrivato da meno di 6 mesi, non aveva un ruolo operativo e lo incrociavo a malapena. Mi avevano confidato il loro malcontento Eravamo in emergenza, tutti i turni erano stravolti, il personale veniva trasferito. Loro avrebbero dovuto spostarsi a Brescia ma non volevano, erano molto spaventati. Sono anche convinto che si fossero suggestionati per l’inesperienza: in un caso per applicare l’ossigeno a un paziente avevo chiesto di somministrare morfina. Qualcuno intese Siccinilcolina, che nemmeno avevamo in reparto”.
Che fine hanno fatto?
“Non li ho più visti né sentiti. Spero che anche loro subiscano un processo”.
E adesso? Ambizioni?
“Ho iniziato nella prima emergenza nel 2003 e da ragazzo facevo il volontario. Amo questo settore, gli ho sacrificato la vita. A Montichiari dove ho trascorso 20 anni mi sentivo a casa, avevo già fatto un progetto per avviare una ristrutturazione del Pronto Soccorso. Ma so che è fermo. Tornerei là solo se lo si potesse attuare. Sto bene anche qui. Vediamo. Ho ricevuto parecchie proposte”.