
Stefano Binda, oggi 58enne, in Tribunale in un’udienza sul caso Lidia Macchi
Brebbia, 16 settembre 2025 – “Mi sento come la repubblica di San Marino che dice ‘no’ alla Cina che le intima di arrendersi. Quello sono io”. Stefano Binda, di Brebbia, 58 anni compiuti un mese fa, e la sua lunga marcia: dalla condanna all’ergastolo in primo grado come il predatore assassino che la notte fra il 5 e il 6 gennaio del 1987, nella zona di Cittiglio, strazia con ventinove coltellate la vita di Lidia Macchi, alla piena, definitiva assoluzione per non avere commesso il fatto. La sua richiesta di risarcimento per l’ingiusta detenzione patita per 1.286 giorni registra una nuova frenata. La Cassazione ha rimandato la questione alla Corte d’appello di Milano. I nuovi giudici dovranno decidere se riconoscere il risarcimento di 212.294,24 euro, già frutto di una limatura da 303.27738.
Ma gli ’ermellini’ romani, senza entrare nella motivazione della sentenza che ha scagionato Binda, sviluppano una serie di motivazioni che potrebbero portare a un’ulteriore riduzione della somma se non all’annullamento dell’istanza di indennizzo. Perché Binda non avrebbe saputo spiegare o avrebbe spiegato in maniera confusa alcuni particolari (le pagine strappate da un’agenda in coincidenza con il giorno dell’omicidio e del rinvenimento della vittima) e sue annotazioni (“Stefano è un barbaro assassino”, “Caro Stefano, sei fregato, dovrebbero strapparti gli occhi e strapparteli con le tue mani per quello che hai visto ... e l’hai visto tu”) che avrebbero potuto essere lette in chiave autoaccusatoria. Secondo la Suprema Corte questo comportamento ’favorì’ l’arresto, la detenzione, il processo.
Stefano Binda, sorpreso per questo nuovo stop?
“Ci si appiglia a pagine mancanti e agli appunti sparsi e anche sconclusionati di un 18-20enne e dopo trent’anni si viene a dire a un cinquantenne che lui è stato confuso e contorto nel dare la spiegazione dei suoi scritti di ragazzo, che la sua spiegazione è stata illogica. E allora il cinquantenne è colpevole, anzi è ‘il’ colpevole. È questo che mi indigna. Sarebbe sufficiente riflettere su una serie di circostanze che fanno passare la questione degli scritti in secondo piano”.
Quali?
“Sul corpo della vittima c’era un Dna che non apparteneva all’indagato, ossia a me. Era sbagliato il presupposto di partenza delle indagini che quella lettera (la prosa ‘In morte di un’amica’ recapitata alla famiglia Macchi il giorno dei funerali di Lidia, ndr) fosse opera dell’assassino perché c’erano particolari, come l’orario notturno del delitto, che solo l’assassino poteva conoscere. E sulla lettera c’era un Dna che non era il mio. Ignorando tutto questo, sono stati costruiti teoremi inesistenti e accuse inconsistenti, come stabilito da Corte d’appello e Cassazione. E poi sarei stato io quello confuso. Invece mi hanno detto: ‘Stefano, ti mettiamo in galera perché sei stato confuso e contorto. E ti condanniamo anche all’ergastolo’. Perché l’ergastolo? ‘Perché sei stato confuso e contorto’. C’è una sentenza di secondo grado, confermata dalla Cassazione, che mi ha assolto pienamente. Lì c’è tutto. Perché sono stato assolto anche se ero confuso e contraddittorio? Perché quella sentenza non viene riletta? Solo perché è passato del tempo?”.
A cosa attribuisce questo?
“C’è tutto un sistema che va avanti così. Di fronte al sistema il singolo non è niente, non vale niente. È un sistema che non è fatto per i singoli. Avevo sperato che per me ci fosse almeno uno spiraglio nelle sue pieghe. Non è stato così. Una circostanza che ti stringe, ti prende alla gola”.
E adesso?
“Sto aspettando che mi chiamino in appello per la terza volta. La battaglia prosegue. Riprendiamo i pezzi, le varie memorie presentate. Per due volte i giudici mi hanno dato ragione, compreso quando ho rifiutato il compromesso che mi era stato offerto”.
Com’è la sua vita di oggi?
“Quella di sempre: la famiglia e il volontariato”.