GABRIELE MORONI
Cronaca

Ingiusta detenzione lunga 3 anni: 212mila euro di risarcimento a Stefano Binda, accusato dell’omicidio di Lidia Macchi

Accolto il ricorso per ottenere l’indennizzo annullato dalla Cassazione, ma la cifra è stata ridimensionata per “comportamento negligente” nel corso del processo

Stefano Binda in aula a Milano

Stefano Binda in aula nel corso del processo per l'omicidio Macchi

Cittiglio (Varese) – Stefano Binda ha diritto al risarcimento da parte dello Stato, per l'ingiusta detenzione patita per tre anni: 1.286 giorni vissuti tra il 2016 e il 2019, con la terribile accusa di essere il predatore assassino di Lidia Macchi, la studentessa di Varese, per due anni sua compagna di liceo e come lui militante di Comunione e liberazione, assassinata con 29 coltellate la sera del 5 gennaio 1987, nella zona di Cittiglio. Ma l'entità dell'indennizzo deve essere ridimensionata: da 303.277, 38 euro a 212.294,24 euro. I giudici della quinta sezione penale della Corte d'appello di Milano hanno accolto il ricorso del 57enne laureato in filosofia d Brebbia che, assistito dall'avvocato Patrizia Esposito, chiedeva di essere riammesso al risarcimento che la Cassazione aveva annullato con rinvio all'Appello. Una decisione presa accogliendo il ricorso del sostituto procuratore generale di Milano, Laura Gay. Non si trattava, sosteneva il pg Gay, di entrare nel merito di una sentenza ormai cristallizzata con la piena e definitiva assoluzione dell'indagato per non avere commesso il fatto, ma di valutare se l'atteggiamento di Binda (che in alcune occasioni si era avvalso della facoltà di non rispondere, peraltro un diritto garantito dalla norma) poteva essere, all'epoca, un elemento su cui fondare (e mantenere) l'ordinanza di custodia cautelare in carcere.  In altre parole, secondo la Procura generale, “con i suoi silenzi” Binda avrebbe contribuito all'errore sulla sua carcerazione. Si riteneva che "la condotta mendace" negli interrogatori costituisse "condotta formale equivoca", tale da creare concorso nell'errore.

Ecco ora la nuova sentenza della Corte d'appello di Milano, motivata in 21 pagine. Binda non ha tenuto comportamenti che "possano essere qualificati in termini di dolo o colpa grave ostativi all'indennizzo". Neppure ha mentito pesantemente. "Il sistematico e grave mendacio" che gli viene attribuito nell'ordinanza e nei provvedimenti successivi che lo hanno tenuto in carcere "è in gran parte caduto con la sentenza definitiva di assoluzione" in base alla quale non si può affermare che l'indagato "abbia mentito durante le indagini o in giudizio nel disconoscere la paternità della lettera 'In morte di un'amica' o dello scritto 'Stefano è un barbaro assassino' o nell'affermare la superficialità dei suoi rapporti con Lidia o nel riferire della vacanza a Pragelato (il giorno dell'omicidio di Lidia Macchi, ndr), ritenuto alibi credibile e comunque non smentito dalle risultanze istruttorie".

Binda ha fornito sulle circostanze in cui apprese della morte di Lidia due dichiarazioni "una delle quali certamente inveriritiere". Si tratta, però, di un aspetto non rilevante e non si può non tenere conto dell'ampio lasso di tempo che separa i due verbali, uno del 1987 e l'altro del 2015. Quindi, da parte di Binda, non c'è stato dolo in sede di istruttoria e processuale. La sentenza gli riconosce "un profilo di colpa tale da non escludere l'indennizzo, ma da ridimensionarlo in termini di equità", con anche la compensazione delle spese. Una "colpa lieve".

La sentenza annota, infatti, che BInda, "pur sottoponendosi all'esame dibattimentale e rispondendo alle domande di tutte le parti, ha reso dichiarazioni contorte o evasive, tenendo un comportamento negligente che ha contribuito, sia pure in parte, all'erroneo convincimento della sua colpevolezza ed al mantenimento, sul piano cautelare, del regime restrittivo".