
Una manifestazione del Leoncavallo ai tempi del primo sgombero con i volti di Fauto e Iaio
Milano – Non c’è stata nessuna battaglia. La vecchia cartiera è tornata ai proprietari, dopo trent’anni, e tre milioni di euro che il ministero dell’Interno è stato condannato a pagare per i mancati sgomberi. Fino a poco fa, di certo, sarebbe andata in modo diverso. Ieri lo Stato ha dato l’assalto al fortino che ha cercato, inutilmente, di conquistare dal 1994 e l’ha trovato deserto. Lo sgombero del Leoncavallo ha fatto cadere un muro. E come successo altre volte, per consuetudine, tutti pensavano dovesse durare in eterno.
In un fine agosto addormentato dalle ferie, invece, la fortezza Bastiani della città orizzontale, quella che è stata la casa dell’antagonismo, il filone che ha attraversato il movimento extraparlamentare degli anni Settanta, le mode alternative degli Ottanta e l’antiglobalismo dei Novanta e dei primi Duemila, ha ceduto davanti agli interessi (legittimi come dicono le sentenze) della città verticale: la Milano della rigenerazione urbana. Non è la fine di un’epoca. L’epoca era già finita e non ce n’eravamo accorti. È la fine di una generazione, di un modo di fare politica, forse, ma soprattutto di vivere. I ventenni, oggi, non frequentano la festa del raccolto. Se seguono gruppi alternativi, li ascoltano sulle piattaforme. Universitari, figli del popolo e di papà. Non solo militanza, ma birra, eventi, concerti. Prezzi bassi, non certo un modello di trasparenza fiscale, ma nessuno si formalizzava. Una vita fa. La Milano alternativa a quella luccicante, da corso Como ai Navigli.

I ragazzi di allora hanno i capelli bianchi, i trigliceridi alti e (pochi) figli. Il 21 agosto sono in vacanza, magari col suv. Si è passati dalle ruspe che hanno sventrato la sede originaria, nella via da cui il centro sociale prende il nome, alla corsa in auto dalla Toscana della militante che si era portata via le chiavi. Così si evita di fare danni. Finisce così perché è finita da un pezzo. E questo è solo l’ultimo passaggio. Negli anni se ne sono andati, in silenzio, almeno una decina di piccoli Leoncavallo. Si diceva dell’urbanistica: curioso notare come la Milano orizzontale che si spegne, con le sue contraddizioni di illegalità, confini largamente con quella verticale della grande avanzata da archistar, oggi finita per paradosso sotto inchiesta.

Esempi? Più d’uno. Al posto del centro sociale di via della Pergola, all’Isola, ora ci sono appartamenti ristrutturati. Spariti anche il Garibaldi, in un quartiere che ha cambiato volto, e il Bulk, in via Bramante, che è stato l’inventore delle critical mass, l’invasione dei ciclisti nelle strade occupate dalle auto. Il ciclo si compie secondo uno schema tecnico infallibile: l’area industriale che decade, il capannone vuoto, l’occupazione illegale, che cresce disordinata e spontanea, poi il piccone risanatore. E le piste ciclabili, ordinatamente pianificate dal Comune. E i ventenni a casa, o sui social.
Anche il Leoncavallo, che per chi protesta è tema politico, oggi è soprattutto una storia di mattone. L’area è proprietà della famiglia Cabassi, gli eredi di Pino el sabiunat, che ha fatto i primi soldi portando a Milano la sabbia sulle chiatte del Naviglio per la ricostruzione post bellica. Quello scampolo abbandonato sta cercando un futuro. E spetterà a loro, all’immobiliare L’Orologio, trasformarla in qualcosa di diverso. Ma il centro sociale è un tema anche nelle chat dell’inchiesta sull’edilizia che assedia la giunta di Beppe Sala.
Nei faldoni sotto la lente della Procura ci sono, anche, le conversazioni del direttore generale Christian Malangone e dell’ex assessore Giancarlo Tancredi. Si spingeva per valutare l’ipotesi di un accordo con i Cabassi coinvolgendo la Prefettura, per dare un futuro al centro sociale. C’era l’ipotesi di concedere l’uso di Cascina Nosedo, al Corvetto. Tancredi aveva parlato anche con lo storico leader del Leonka, Daniele Farina, per sondare la soluzione. Sempre “se il capo è d’accordo”. Il capo, Beppe Sala, oggi ha una grana in più da gestire.