JESSICA MULLER CASTAGLIUOLO
Cronaca

Centri sociali, l’era del riflusso. La sociologa: “Ma questi spazi servono ancora, sfidano il modello dominante di città”

Marianna D’Ovidio, docente alla Bicocca: “Queste esperienze sono ancora capaci di costruire alternative ed immaginari differenti”. Ma rispetto agli anni ‘70 sono diminuiti di oltre due terzi

Forze dell’ordine schierate in via Watteau

Forze dell’ordine schierate in via Watteau

Milano, 22 agosto 2025 – A resistere sono rimasti in pochi. Gli spazi di “cultura antagonista“ sotto il cielo di Milano sono sempre più rari. Negli anni Settanta, di centri sociali attivi in città se ne contavano più di una trentina. Negli anni Novanta, scendono a circa ventiquattro. Oggi, una decina. La maggior parte (non tutti), sorgono in aree comunali occupate.

Tra le “battaglie“ di ieri, il divorzio, l’aborto, i diritti degli operai, la chiusura dei manicomi. Oggi, la lotta per la casa, gli affitti troppo cari che costringono le famiglie a emigrare nelle periferie, ma anche lo ius soli, l’abolizione del patriarcato, il clima, i diritti civili. Si trova tutto questo, in dosi diverse, nei centri sociali milanesi.

Tra questi, il Cox 18, in via Conchetta sul Naviglio Pavese, il Cantiere in via Monte Rosa, la Cascina Torchiera in zona Musocco. Una mappa che, con lo sgombero del Leoncavallo, perde un pezzo. “Milano oggi si sveglia un po’ meno democratica”, dice Marianna D’Ovidio, professoressa di sociologia dell’ambiente e del territorio dell’Università di Milano Bicocca.

Ma che significato assumono oggi spazi autogestiti come quelli di Leoncavallo a Milano?

“Il ruolo di questi posti nella città è cambiato, ma resta di principale importanza. Non è più un tema solo politico, ma di cultura: sono ancora capaci di costruire delle alternative, degli immaginari differenti, che in uno scenario di omologazione urbana è prezioso”.

Omologazione?

“Le città vogliono essere attrattive a tutti i costi. Turismo, grandi eventi, nuove costruzioni. Devono darsi questa immagine di metropoli globale che però, paradossalmente, le rende tutte uguali, espressione del pensiero unico”.

Questo cosa comporta?

“L’esigenza di mettere a valore il più possibile il terreno urbano. Tutto serve a portare profitto. Vale anche per la proposta culturale. Si dimentica così il valore originario della cultura, che è quello di costruire significati condivisi”.

Un processo della città che sta però mostrando i suoi limiti, soprattutto a Milano.

“Decisamente”.

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La professoressa Marianna D'Ovidio

Ma che c’entra questo con i centri sociali?

“Sono proprio realtà come Leoncavallo a sfidare il modello dominante di città. Si tratta di luoghi nei quali persistono visioni alternative di valorizzazione degli spazi urbani. Detto in breve: oggi a Milano gli spazi servono per fare profitto, mentre in questi centri servono per costruire momenti di cultura condivisa, stare insieme”.

Come si esprime questo valore culturale?

“Quando parliamo di centro sociale abbiamo ancora in mente la fabbrica occupata degli anni Settanta, ma le cose non stanno così. Sono sempre stati una fucina creativa che ha ispirato, ad esempio, l’industria della moda. Hanno formato una generazione di creativi e musicisti milanesi”.

Perdere questi luoghi quale conseguenze può avere?

“Certo, i centri sociali non sono gli unici luoghi in cui convivono modi sperimentali di fare società e fare comunità, ma sono parte importante di questo mosaico alternativo. Perderli significa rinunciare a un pezzettino di spazio democratico”.

Ma esistono altri luoghi che possono raccogliere l’eredità di esperienze come quelle di Leoncavallo?

“Credo che, seppur con più difficoltà, queste forze dal basso continueranno ad esserci. Non sono tramontate le generazioni che cercano nuovi modi di stare insieme, fare cultura e politica. Spero che si trovino altri luoghi, ma non credo che la relazione microterritoriale costituisca poi la vera ossatura di queste realtà. Sono le idee”.