ELVIO GIUDICI
Cultura e Spettacoli

Norma, il mesto ritorno. Una valanga (meritata) di fischi per la regia

Il capolavoro di Bellini riproposto dalla Scala 48 anni dopo l’ultima esibizione. Deludono le scelte di Py, ma anche l’orchestra e l’interpretazione di Rebeka.

Dopo mezzo secolo, Norma torna alla Scala

Dopo mezzo secolo, Norma torna alla Scala

Serata scabrosa, alla Scala: tornava, dopo quarantott’anni, uno dei maggiori capolavori del teatro musicale italiano, Norma“ di Vincenzo Bellini. Opera difficile, proclama il piccolo mondo antico d’estrazione loggionistica, prono a reiterare l’ipotesi bislacca che la grandiosa interpretazione – vocale e scenica – di Maria Callas abbia imposto una sorta di fatwa, “non avrai altra Norma all’infuori di me”. Che invece, come sempre vuole la logica del teatro, eccome se ci sono state e tuttora ci sono: di grandi meno grandi grandissime, quest’ultima proprio qui con Montserrat Caballè al centro della lignea, stupenda scenografia idealizzante di Mario Ceroli. Idealizzante, appunto: grande soluzione d’una drammaturgia che, se la prendi alla lettera e la piazzi tra querce antiche, pepli, mantelloni, diademi e lune argentee, enfatizza il suo riguardare sostanzialmente i pupazzi d’una matura imbrogliona che con due figli si finge vestale, una pudibonda ritrosa tutta sì no forse, e un macho di provincia che minaccia sfracelli ma - al solito - solo a parole. Altra felice soluzione è sottolineare proprio la sua quotidianità da tinello borghese - che può rivelarsi ben più tragico d’un salone canoviano - in una sorta di asciutto e duro neorealismo, come fecero la coppia Leiser-Caurier a Salisburgo (protagonista sublime Cecilia Bartoli, che rivoltò il ruolo come un calzino) o Vasily Barkhatov a Vienna pochi mesi fa (protagonista eccelsa Asmik Grigorian), quest’ultimo atteso il prossimo 7 dicembre scaligero per Šostakóvič.

Invece Oliver Py opta qui per l’intellettualismo-chic, accolto alla fine da una valanga di fischi senza neppure un tentativo di applausino tanto per gradire una qualche discussione: valanga quale non s’ascoltava da tempo. Giustificata? Purtroppo sì: scelta erratissima, Py, ma anche prevedibilissima dati i suoi precedenti.

L’idea vagamente alla base avrebbe anche potuto essere intrigante: un metateatro con Norma e Adalgisa due primedonne mostrate nella loro vita teatrale quotidiana davanti ai rispettivi tavolini da trucco. Già fatto, però: Guy Joosten realizzò ad Amsterdam una sorta di Eva contro Eva, con Bette Davis in Norma e Anne Baxter in Adalgisa, che in un teatro dove si rappresenta Norma si disputano il tenorissimo Pollione. Solo che Joosten s’è attenuto a questo e ne sortì un grande spettacolo: Py ci scaraventa dentro di tutto – Risorgimento, teatro greco, simboli, metafore – e se la tecnica registica è impeccabile, la sostanza diventa un minestrone per il quale vale l’antico detto popolare "e metti cacio e metti burro, e metti burro e metti cacio, alla fine mi stomacai".

Una facciata scaligera che ruota mostrando il retro fatto di scale di ferro oppure di legno, con tanto di sipario con dipinta sopra la celebre fotografia della sala scoperchiata dalle bombe del ’43. Soldati austriaci che ballano e sgambettano stile boys dell’antica rivista, coi fucili puntati. Figuranti maschi e femmine con identica gonna lunga che incedono leggiadri qual silfidi trasognate portando in mano teschi dorati che fanno tanto Amleto-chic. Il coro di guerra con efebi a torso nudo (ma machi proprio poco pochino) che ballano malissimo. I due pargoletti vestiti da austriaci a duellare con spade di legno che non sanno tenere in mano (oggi i bimbi sanno giocare solo con le play station, che tristezza) e poi mentre Norma medita di ammazzarli fanno fare ciao ciao a due pupazzetti che nella finzione scenica sarebbero i pargoletti di Medea, roba che neanche Paolo Poli. E via così. Sia chiaro: una Norma pessima non perché “alla moderna” che sarebbe anzi auspicabilissima, ma perché scema.

Altra mazzata negativa, la direzione. L’orchestra di Fabio Luisi è una morta gora limacciosa nelle sue rarissime pulsioni dinamiche, opaca sempre, chiassosa spesso (cosa che si ripercuote non bene sul canto), colori mai, elasticità ai minimi termini, logica narrativa a yo-yo tra quello che Cimarosa chiamava “oh che armonico fracasso” nei momenti concitati, e catatonia plumbea in quelli elegiaci. Unico merito attribuibile a Py è l’aver tenuto conto della perfida acustica scaligera (che privilegia l’orchestra ma non le voci, che se stanno al centro del palcoscenico la nuova torre scenica le aspira come un camino), e piazzato quindi i solisti al proscenio in quasi tutti i momenti topici.

Marina Rebeka è voce importante per timbro e volume (quantunque oggi non poco smagrito nel settore centro-grave, a fronte d’uno acuto invece ancora imperioso) e impeccabile per tecnica nonché per dizione: ma dizione perfetta non significa automaticamente grande accento, difatti del tutto assente in un fraseggio da esasperante oscillogramma piatto. Due parole del coro (dire ancora quanto sia superbo è ormai pleonastico: Alberto Malazzi lo mantiene il migliore del mondo, evviva) o di Michele Pertusi, e il confronto si fa impietoso. Sentire solo il suo “Sacrilego nemico”, con aggettivo e sostantivo diversificati dal diverso schiocco delle consonanti, e paragonarlo al “Ei tornerà pentito, supplichevole, amante” di Rebeka, ogni aggettivo identico all’altro per colore e accento (usatissimo, nei libretti, l’artificio retorico di piazzare tre termini simili; compito dell’artista – cosa diversa dal cantante – il diversificarne con l’accento i significati): e l’esempio è replicabile in pratica ovunque, cantante grande ma interprete non pervenuta; e oggi – anche ieri, ma oggi molto di più – sarebbe preferibile canto magari un po’ più falloso ma grande carisma d’artista.

Un filo meglio Vasilisa Berzhanskaya: canta altrettanto bene della Rebeka, e qualche raro accento qua e là riesce a infilarlo. Pessimo invece il Pollione di Freddie De Tommaso: gran vocione rozzissimo e perennemente forte, ma quando c’è un Do acuto scantona come da antica tradizione, quella che s’inventa acuti mai sognati dai compositori, ma quelli invece scritti li tiene in non cale.