
Bruce Springsteen sul palco di quel memorabile primo concerto a San Siro: era il 21 giugno 1985
Milano – Con il pensiero a “Blade Runner” Alberto Fortis definisce il primo San Siro di Bruce Springsteen una “colonia extramondo” rispetto a quel che si vedeva e sentiva allora. Lo spettacolo di un altro pianeta aperto da quella “Born to run” poi consacrata tra gli inni dell’epopea attraversata dall’uomo nato per correre.
“L’impatto suo e della E-Street Band, la tenuta fisica, l’irruenza sonora, mi stordirono. E pensare che ‘Born in the Usa’ nacque in forma di ballata, come ‘Nebraska’, poi trasformata dal Boss, su pressione del manager John Landau, nella cannonata che tutti conosciamo”, prosegue il cantautore milanese incrociando i suoi ricordi con quelli del popolo stipato sugli spalti a cantare “Glory days” e “Thunder road”.

“Nel 1985 ero in tribuna col sindaco d’allora Carlo Tognoli, con Elio Fiorucci e altri, invitato dalla Cbs con cui avevo da poco firmato il contratto che mi avrebbe portato l’anno dopo a registrare l’album ‘Assolutamente tuo’ a New York, con la coproduzione del chitarrista di Bowie Carlos Alomar, proprio in quei Power Station Studios dove il Boss aveva realizzato con l’ingegnere del suono Bob Clearmountain ‘Born in the Usa’ (ma frequentati in quei vertiginosi anni ’80 da Madonna, Cyndi Lauper, Peter Gabriel, Keith Jarrett, Eurythmics, James Taylor, Lou Reed, Grace Jones, Andy e John Taylor, ndr)”. Un concerto storico come quello di Bob Marley cinque anni prima.
“Non a caso organizzati entrambi da Franco Mamome, agente con cui lavoravo pure io. Proprio Mamone nel 1980 mi propose di aprire, assieme a Pino Daniele, lo show del re del reggae, ma dovetti rinunciare perché impegnato col tour di ‘Tra demonio e santità’”.

Un momento particolare del debutto di Springsteen?
“Rimasi stupito da ‘Hungry Heart’, canzone che aveva contrassegnato il mio periodo losangelino, quando frequentavo là l’università e l’album ‘The river’ era la mia colonna sonora. ‘Hungry heart’, infatti, stava lì. Da alcune interviste ho poi scoperto che era la canzone di Bruce preferita da Lennon”.
Dopo tre anni rivide il Boss a Torino col tour di “Tunnel of love”. Lo trovò cambiato?
“Tre anni di tempo qualche sfumatura la cambiano in qualsiasi artista. Io penso che Springsteen il culmine dell’aspetto ‘wild pop’ l’abbia raggiunto proprio con ‘Born in the Usa’. Anche perché ‘Tunnel of love’ era un album diverso, portato in tour con una produzione leggermente edulcorata (basta ricordarsi l’ingresso in scena con giacca rosa e mazzo di rose in mano in una ambientazione tipo luna park, ndr) anche se poi la potenza era sempre la stessa”.
È tornato poi a vederlo?
“Sì, l’ultima volta a Monza due anni fa in quello che penso sia stata una delle migliori esibizioni di un tour europeo caratterizzato, a quanto ne so, da un bioritmo un po’ altalenante”.
Gli anni passano per tutti, anche se col supporto di una superband di 18 elementi (anzi 16, viste le defezioni forzate di Patti Scialfa e di Little Steven, operato urgentemente d’appendicite quattro giorni fa a San Sebastian che però ha auspicato in un post di tornare al suo posto per la seconda data di Milano). Cosa si perde e cosa si guadagna con l’età?
“Con la passione che ho per i nativi americani e lo sciamanesimo, io il Boss l’ho sempre visto come una di totem indifferente al fluire del tempo. Cosa abbiamo perso di lui? Forse un po’ quella ‘mitragliatrice’ che, tanto a livello di coesione strumentale che di tenuta vocale, non esauriva mai i suoi colpi. Ma contemporaneamente abbiamo guadagnato una maggior rotondità nei colori bluesy e gospel nelle canzoni che canta. Il Boss non sarà più il Varenne degli anni ’80-’90, ma rimane un incredibile purosangue e la sua corsa uno spettacolo imperdibile. Tutto con lo slancio sociale-umanitario che lo caratterizza”.
Si sa sempre come la pensa.
“Già. E lo fa con un coraggio e una determinazione non sempre rintracciabili nelle cose del rock; soprattutto in un momento confuso e condizionato da pesanti oligarchie come questo. Un tempo affermare dal palco che Ronald Reagan non ti piaceva comportava meno problemi del dirlo di Donald Trump”.