SIMONA BALLATORE
Cronaca

Medicina d’urgenza e ricerca: "Il mestiere più bello del mondo al servizio dei deserti sanitari: così possiamo fare la differenza"

Lucrezia Rovati, dall’esperienza in Uganda all’app che guida il personale dei pronto soccorso in aree remote. Una professione da riscoprire: "Noi, investigatori sul campo: il paziente è lo specchio della società".

Lucrezia Rovati, dall’esperienza in Uganda all’app che guida il personale dei pronto soccorso in aree remote. Una professione da riscoprire: "Noi, investigatori sul campo: il paziente è lo specchio della società".

Lucrezia Rovati, dall’esperienza in Uganda all’app che guida il personale dei pronto soccorso in aree remote. Una professione da riscoprire: "Noi, investigatori sul campo: il paziente è lo specchio della società".

"Il lavoro del medico d’emergenza è il più bello del mondo. E può fare davvero la differenza nelle aree più remote e nei cosiddetti “deserti sanitari". Lucrezia Rovati, 32 anni, è medico di Medicina d’urgenza e dottoranda all’università di Milano-Bicocca dov’è team leader del progetto Oases (Organization for the Advancement and Support of Emergency Systems). Alle spalle la laurea all’Università San Raffaele, attività di ricerca negli Stati Uniti, al Ragon Institute of Mgt, Mit and Harvard e al Mayo Clinic di Rochester e la specializzazione in Medicina di emergenza tre le corsie del Niguarda ma anche in Uganda.

Medicina d’urgenza e ricerca sono inseparabili nel suo percorso: c’è un’esperienza che è stata determinante?

"Penso al periodo che ho potuto svolgere al Dr. Ambrosoli Memorial Hospital di Kalongo: un ospedale con 286 posti letto in un’area rurale e isolata nel Nord Uganda, sostenuto dalla Fondazione Ambrosoli. È stata determinante sia per capire ancora di più il valore della medicina di urgenza sia per il progetto di ricerca di cui ci stiamo occupando in Bicocca".

Qual è la sfida?

"La carenza di strutture ospedaliere e di personale sanitario specializzato limita l’accesso a cure mediche di qualità nelle aree più remote. Con Oases stiamo sviluppando insieme al Dipartimento di Informatica una piattaforma digitale, con un’app per tablet e smartphone, dedicata al personale che lavora nei pronto soccorso dei cosiddetti “deserti sanitari". Abbiamo centrato il primo obiettivo, raccogliendo 22mila euro con una campagna di crowdfunding (nel programma BiUniCrowd). Entro settembre sarà pronta la prima versione pilota dell’app, che testeremo da ottobre".

Come funziona?

"Aiuta i medici nella valutazione del paziente in base ai sintomi, nella scelta di quali test diagnostici effettuare e delle terapie. E, parallelamente, permette una raccolta di dati clinici, per attività di ricerca e pianificazione medica. L’implementazione del progetto verrà svolta al Dr. Ambrosoli Memorial Hospital, la sfida è poi renderlo “scalabile“, diffonderlo nei deserti sanitari. E ce ne sono anche in Italia. Diamo un servizio dove ci sono problemi strutturali e mancano medici".

E si fa formazione.

"In Uganda, per esempio, c’è una figura intermedia tra medici e infermieri, quella dei “Clinical Officer“. Per formare un medico di emergenza servono più di dieci anni e i costi sono molto alti. Ci rivolgiamo al personale che c’è già ma al quale diamo strumenti in più per lavorare insieme a medici che non sono sul posto".

Potrebbe essere anche uno strumento di “telemedicina“?

"Si potrebbe pensare in futuro a un’app ad hoc per i pazienti, con linee guida sul quando e dove recarsi in base ai sintomi, per esempio. Il problema però è che al momento si rischia di creare disparità: non tutti hanno tablet e competenze digitali. Abbiamo deciso quindi di focalizzarci su medici e infermieri, anche di frontiera".

L’amore per la Medicina e per la ricerca è di famiglia.

"Nella mia famiglia sono tutti medici, ma sono l’unica ad avere intrapreso la strada della Medicina d’emergenza. Mio nonno si è dedicato alla Farmacologia e non solo, la Fondazione Luigi Rovati porta avanti la sua missione culturale (con il museo etrusco in primis, ndr) e il supporto alla ricerca scientifica. Collabora anche nel progetto “Oases", accanto a Bicocca. Io ho sempre desiderato diventare ricercatrice, negli Stati Uniti questo sogno si è rafforzato, e sono una “praticona“: sono affascinata più dalla parte clinica e dalla Medicina d’urgenza".

Una delle specialità che oggi attira meno i giovani. Come invitarli a riscoprirla?

"La mancanza di medici è un problema reale. E turni e condizioni di lavoro dei medici di urgenza e di medicina interna non invogliano, ma è il lavoro più bello del mondo. Permette di vedere tutto l’aspetto diagnostico e di andare anche oltre: il paziente è lo specchio della società".

Un consiglio ai futuri medici?

"Consiglierei a tutti un’esperienza simile a quella che ho potuto svolgere in Uganda. Si “tocca“ la Medicina, si torna al suo valore clinico, con meno mezzi diagnostici. Si scopre che il medico è un investigatore e che è un lavoro concreto e meno burocratico. Da noi fai parte di un sistema, contribuisci a farlo funzionare, lì puoi essere essenziale, fare la differenza, salvare la vita di una persona. Esperienze così aiutano anche a rimettere ordine alle priorità della vita".