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Lo psicologo post-trauma: "Team di primo intervento. Così si salverebbero vite"

Velio Degola: non è una questione di risorse ma di volontà. Il modello? Gli Usa. Dal primo colloquio alle terapie di gruppo, il lungo cammino del dolore.

Lo psicologo milanese e professore all’Università di Ferrara Velio Degola collabora con Unavi

Lo psicologo milanese e professore all’Università di Ferrara Velio Degola collabora con Unavi

di Andrea Gianni

MILANO

"Episodi come questi rendono palesi le gravi lacune nel sistema di supporto alle vittime: si parla sempre di Caino, quando invece su Abele cade il silenzio". Velio Degola, psicologo milanese specializzato negli interventi post-trauma e professore di Tecnica del colloquio psicologico e Psicologia della comunicazione all’Università di Ferrara, per la sua professione è ogni giorno a contatto con persone che si trovano all’improvviso davanti a un abisso. La perdita di un compagno, di un genitore o di un figlio, tragedie che sconvolgono vite facendole uscire dai binari. Degola collabora anche con l’Unione Nazionale Vittime, associazione che si occupa della tutela delle vittime di reati violenti.

Come si potrebbe strutturare un intervento delle istituzioni?

"L’intervento non dovrebbe riguardare solo l’indagine e la cattura di chi ha commesso il reato, come giustamente avviene, ma anche il supporto verso chi ha subito quel reato. Servirebbe un protocollo per identificare immediatamente i sopravvissuti, facendo subito intervenire un team di psicologi esperti in trauma e un referente di contatto, per gestire fasi delicatissime come l’interazione con l’autorità e le forze dell’ordine, l’organizzazione del funerale. Un approccio proattivo e olistico, preliminare all’avvio di una terapia più strutturata che altrimenti resterebbe una goccia nel mare. Intervenire nella fase immediatamente successiva al trauma, quando scatta una fortissima crisi, è fondamentale. L’effetto domino della sofferenza è imprevedibile, e da una singola tragedia ne possono nascere tante altre. Per questo è fondamentale prevenire".

Esistono progetti all’estero che potrebbero essere replicati in Italia?

"Negli Stati Uniti sono state messe in campo squadre di protezione attive 24 ore su 24 per un primo intervento. Questo potrebbe essere un modello da seguire, ma prima serve un cambiamento culturale perché, così come vengono tutelati i diritti dei detenuti, anche le vittime vanno sostenute".

È una questione di risorse?

"Più che di risorse è una questione di volontà politica. Sono interventi che potrebbero essere messi in campo con fondi relativamente contenuti, pensando al bilancio di uno Stato o di una Regione. Associazioni come Unavi potrebbero offrire supporto e collaborazione, per fare in modo che il peso non gravi su servizi sociali dei Comuni già in difficoltà".

Come deve essere strutturato il primo approccio psicologico con le vittime?

"Esistono dei protocolli specifici e delle linee guida, e molto dipende anche dall’età della vittima. In generale il primo approccio deve essere improntato all’ascolto, con un atteggiamento non giudicante. Spesso scatta nella vittima anche un senso di colpa, il pensiero anche irrazionale di non aver fatto abbastanza per proteggere chi non c’è più, che si trasforma in un tormento aggiungendosi al dolore. Il sentimento di solitudine e abbandono, la rabbia. I primi colloqui sono individuali, ma in una fase successiva e più matura consiglio un lavoro di gruppo. Considero fondamentale il contatto, il confronto e il dialogo con persone che hanno subito le conseguenze di traumi analoghi. Per iniziare il lungo cammino per superare un trauma è necessario uscire dall’idea di essere soli. La mancanza di un intervento immediato e automatico anche sul fronte del supporto psicologico è una lacuna delle istituzioni, che andrebbe colmata".