ANDREA SPINELLI
Cronaca

Il mio amico Lucio Battisti: "Il nostro primo incontro?. In un oratorio al Corvetto"

Pietro Montalbetti dei Dik Dik racconta il suo rapporto col grande cantautore "Quando mia madre lo conobbe lo volle invitare al nostro pranzo di Natale".

Cielo grigio su… Quando c’è la salute, puoi scalare le montagne. E Pietro “Pietruccio” Montalbetti l’ha fatto, inerpicandosi a settant’anni sul Kilimangiaro e sull’Aconcagua, la più alta al mondo dopo l’Everest. Oggi, però, che di anni ne ha 84, si limita a risalire l’Orinoco e il Rio Negro seguendo le tracce di Alexander von Humboldt. Se c’è una cosa di cui il musicista milanese si vanta, infatti, è quella di mantenere l’intelletto vivo e agile come l’antilope da cui prese il sacro nome dei Dik Dik, riferimento imprescindibile pure del volume con cui torna oggi in libreria focalizzato sulla sua lunga amicizia con Lucio Battisti.

“Storia di due amici e dei Dik Dik”, da cosa nasce? "Dal fatto che in giro c’è troppa, troppa, gente che dice di aver conosciuto Lucio, addirittura scoperto, quando non è vero. Così, io che l’ho frequentato quando eravamo entrambi con le pezze alle terga e l’ho pure aiutato sotto il profilo umano (sotto quello musicale non ne aveva certo bisogno), ho pensato fosse arrivato il momento di raccontarlo per davvero".

Come vi siete conosciuti? "Nella sala cinematografica di un oratorio in Via dei Cinquecento che la domenica proiettava film e gli altri giorni, grazie a una serie di pannelli e a un registratore a quattro piste, diventava una sala di registrazione. Un giorno, attirato dal suono di un pianoforte, ci trovai ripiegata sopra la sagoma riccioluta di questo ragazzo con cui empatizzai subito. Mi fece ascoltare qualche canzone e tra me e me pensai: è simpatico, ma finirà per fare il posteggiatore".

Previsione sbagliata. "Sbagliatissima. Ci reincontrammo in piazza Duomo un 24 dicembre e mamma lo volle il giorno dopo al nostro pranzo di Natale, d’altronde noi abitavamo in via Stendhal e lui in un monolocale di via dei Gelsomini e lo accompagnavamo spesso con la mia Cinquecento. A casa conobbe mio fratello Cesare, che in seguito sarebbe diventato il suo fotografo prediletto, autore di copertine come quella de ‘Il mio canto libero’, in cui, tra braccia e gambe, ci sono pure quelle di Lucio e le mie".

Mogol? "È stato, ovviamente, importante. Ma Lucio sapeva esattamente cosa volere e le idee di certi testi erano sue. Sono convinto che se avesse incrociato sulla sua strada un altro autore di talento, tipo Bigazzi, avrebbe raggiunto gli stessi risultati".

Un aneddoto? "Una volta mi chiese di accompagnarlo a Poggio Bustone e, nonostante fosse già famoso, si vantava con parenti e amici di essere mio amico. Morricone una volta disse che Battisti è stato il più grande musicista contemporaneo. Sono d’accordo con lui. Scrisse per noi una canzone, ‘Vendo casa’, usando un giro di sol rivoltato. Era bravissimo in questo".

La vita per lei non è stata solo a 33 e a 45 giri. "Ho cominciato a lavorare nella musica da ragazzo, ma il mio sogno è sempre stato quello di fare l’esploratore per scoprire e capire questo nostro meraviglioso pianeta. Ho addirittura valicato la catena dell’Himalaya a 6.700 metri, partendo da Katmandu per raggiungere un monastero sperduto e poi scendere a Pokhara, dall’altra parte".

Parliamo delle sue ultime imprese. "Quando sono arrivato nella regione amazzonica dell’Ecuador ho chiesto dei Waorani, popolazione amerinda scoperta da bambino in un documentario che li chiamava col loro vecchio nome, Aucas. Mi è stato risposto che non ce n’erano più. Solo un vecchio campesino mi ha invitato a cercare, convinto che non si fossero estinti del tutto. Aveva ragione. L’anno successivo sono tornato e passando di fiume in fiume li ho trovati. Mi hanno accolto come un extraterrestre e sono rimasto esterrefatto nello scoprire che alcuni di loro hanno sei dita per mano e per piede".

Salute di ferro la sua. "Diciamo che ho ricevuto una buona eredità genetica. Mia nonna un giorno telefonò a mia madre dicendole che a 104 anni non le mancava niente, ma era stanca di vivere. Tempo un mese e non si svegliò più. Stessa cosa mia madre. A più di novant’anni. Mai fumato, mai drogato, non tocco alcol, mangio una volta al giorno, faccio palestra dall’età di 17 anni, sono cintura nera di karate 2° dan e ho fatto campionati di sci. Ma cerco soprattutto di mantenere le sinapsi in funzione".

Come? "Poca tv e tanta lettura. E poi lo studio: astrofisica e astronomia. Il nostro cervello è costituito da 80 miliardi di neuroni e 175 miliardi di sinapsi. Non puoi ringiovanire, ma rallentare il processo di deperimento delle sinapsi, sì. Come? Riempiendoti la testa di nuovi progetti. Per questo continuo a fare concerti. E a scrivere libri".

Gli altri che prima o poi pubblicherà? "Un romanzo tipo Giulio Verne intitolato ‘Storia di una Cinquecento’ che racconta un viaggio al centro della terra. Ma sto scrivendo pure ‘Una vita d’avventura, la mia’, autobiografia che mi racconta dall’età di 4 anni. Il terzo titolo nel cassetto è ‘In viaggio con Siddartha’, romanzo che parte dalle pagine di Hesse per raccontare per raccontare gli Anni 60 di un ragazzo che, dopo una giovinezza passata tra le quattro mura di casa, decide di andarsene alla scoperta del mondo".

E nella sua dui scoperta del mondo che ruolo ha avuto l’ultraterreno? "Non ho il beneficio della fede, ma nella mia filosofia personale ho inserito il dubbio. Quel dubbio di cui parlano Socrate, Platone e Sant’Agostino. Ho letto i vangeli, i vangeli apocrifi, una parte della Bibbia, che trovo un libro terribile, il Corano. Reputo Gesù Cristo un grande personaggio, il Che Guevara dei suoi tempi, ucciso per aver detto qualcosa di rivoluzionario: siamo tutti uguali. Come diceva una grande scienziata quale Margherita Hack: è inutile avere un concetto religioso se non hai una morale. Io nella mia vita un concetto religioso non ce l’ho, ma una morale sì".