
Don Alberto Ravagnani, 32 anni, è prete dell’arcidiocesi di Milano nella parrocchia di San Gottardo al Corso
Milano – Trentadue anni e 271mila follower solo su Instagram. Un video in cui il prete influencer don Alberto Ravagnani promuove integratori, mostrando i bicipiti, sta però creando un polverone. “Faccio una premessa – dice don Ravagnani – riguardo alla concezione che le persone hanno di un prete. Io voglio essere un sacerdote lontano dallo stereotipo, dai pregiudizi. Da più di un anno sponsorizzo un’azienda che si chiama ’Holyart’: vende articoli a tema religioso e nessuno ha mai fatto storie. Perché? Perché l’articolo è considerato ’conforme’ a quello che dovrebbe fare un prete, per il senso comune? Ora sponsorizzo integratori e questo mette in discussione il mio ruolo e la mia vocazione”.
Forse la gente si domanda dove vadano a finire i soldi?
“I proventi servono unicamente per le attività pastorali. Faccio quello che fa qualunque parroco, solo in maniera non convenzionale. Io creo contenuti e creando contenuti creo relazioni. Non sono solo sui social: sono a Milano, nella parrocchia di San Gottardo al Corso, a Porta Ticinese. La maggior parte dei ragazzi del quartiere è rappresentata dagli studenti fuorisede, moltissima gente è atea. Chi pensa a loro? Il cardinale Scola diceva: ’Il campo è il mondo’. E il mondo oggi è anche sui social. Gesù ha avuto il coraggio di portare la religione fuori dagli spazi e dai templi sacri, l’ha trasformata. E io per la mia piccola parte mi sento in continuità con lui”.
In che senso?
“Io mi sento missionario. Vedo persone che, seppur vicine fisicamente, sono lontane dalla Chiesa. Vedo giovani di Milano lontani dal Vangelo più di quanto lo sia per esempio un uomo che vive ’in terra di missione’. E io devo compiere la mia missione con chi è lontano antropologicamente. Sono arrivato al mondo social dove trovo l’uomo di oggi. Non mi sono improvvisato, io ho iniziato anni fa a parlare del Vangelo su YouTube. E da qui sono nati progetti fecondi”.
Per esempio?
“Ho fondato la community ’Fraternità’ che coinvolge centinaia di ragazzi e mette al centro le relazioni. E torno alla questione ’integratori’: per me è una modalità di raccolta fondi come strategia pastorale. Prevede che il ruolo del prete cambi anche nella testa delle persone: come tutti, anche il prete non deve essere ingessato in uno stereotipo, ognuno di noi ha la sua specificità e, come dice il Vangelo, è chiamato a far risplendere i propri talenti”.
Lei è anche un prete che va in palestra?
“Sì. I ragazzi vanno in palestra perché considerano il corpo come nuovo tempio, e io anche lì posso portare Dio. Ho ideato un podcast, ’Il prete in palestra’ dopo essere entrato in relazione con questa community del fitness e ho l’opportunità di superare la separazione tra anima e corpo: posso parlare di Dio anche a partire dalla carne. E le persone mi ascoltano. Quindi posso unire il tema del benessere e della salute con una strategia pastorale e arrivare ai giovani d’oggi. In maniera coerente. Altra precisazione importante: io non vendo nulla”.
Ha parlato con la Curia di questa sponsorizzazione?
“Sì, certamente. Il rapporto è costante. Un aspetto che non è emerso in questi giorni è che se tanti follower si sono lamentati della sponsorizzazione, altri si sono detti entusiasti e altri ancora sono rimasti indifferenti. Un ragazzo mi ha detto: “A me non interessa nulla, anzi la vedo come una cosa normale”. Perché i ragazzi sono abituati agli influencer, alle sponsorizzazioni. E se queste servono per una buona causa ben venga”.