
Manuel Agnelli, 59 anni, milanese, cantante e chitarrista degli Afterhours, ha partecipato come giudice al programma X Factor
MILANO – “Per la cifra che mi ha offerto Sky, molti di quelli che dicono che sono un venduto avrebbero ucciso l’intera famiglia” ammette spesso Manuel Agnelli parlando del no alla sua settima edizione di X Factor. “Dal talent show di Sky ho ricevuto tanto: visibilità, tranquillità economica e mi ha pure insegnato a stare in tv rimanendo me stesso. Anche se mi guardo bene dallo sputare sul piatto in cui ho mangiato, dico però che esiste un altro modo di vivere la musica”.
Un altro modo che il rocker milanese (ri)trova con quegli Afterhours in concerto stasera – martedì 8 luglio – al Carroponte per cavalcare l’anniversario di un album decisivo della loro discografia quale “Ballate per piccole iene” appena rimasterizzato da Giovanni Versari. “Occasione d’oro per dargli nuova vita” prosegue Agnelli, in concerto pure al Brescia Summer Music il 15 luglio, che in tour ha riunito gli After di allora, vale a dire Dario Ciffo a chitarra e violino, Andrea Viti al basso, Giorgio Prette alla batteria. “L’anniversario ci ha permesso di ritrovare quell’entusiasmo se si vuole “infantile“ divenuto nel tempo la cosa che mi mancava di più”.
Quella di chiudere con la tv è stata una scelta di libertà?
“La libertà di fare il ca**o che voglio. Anche se, ripeto, alla televisione devo molto. Prima faticavo a stare in mezzo alla gente, ad accettare compromessi e, soprattutto, ad immaginarmi anche solo lontanamente un personaggio. Figurarsi che una volta sotto al palco ho perfino menato uno del pubblico che durante il concerto s’era permesso di tirarmi una gomma americana”.

Nel 2026 gli Afterhours compiono quarant’anni.
“Abbiamo iniziato il nostro cammino come disturbatori in un’Italia abbastanza diversa da quella di oggi. Andavamo sul palco vestiti da bambine con le treccine e gambe pelose a suonare pezzi molto pesanti, quasi “terroristici“. Ci piaceva provocare non tanto per il gusto di farlo, quanto perché alla musica italiana, nonostante Cccp e altre esperienze, mancava un po’ quel tipo di attitudine”.
Poi?
“Quando nel ’97 uscì il nostro quinto album “Hai paura del buio?“ le cose cambiarono, iniziammo a trovare locali pieni e a sentirci “cool“. Il pubblico cantava tutte le canzoni e all’inizio è stato fantastico, visto che dopo gli anni di gavetta vera (da topi di fogna, direi, se è vero che un paio di volte abbiamo preso addirittura la scabbia) era arrivato finalmente il nostro momento. Poi, però, quando l’apprezzamento è diventato celebrazione abbiamo iniziato a godere un po’ meno”.
Non eravate fatti per quello.
“Il pubblico era lì per festeggiare e non gliene fregava niente di come suonassimo. Così abbiamo perso i riferimenti avuti fino a quel momento e sono arrivate prove come “Quello che non che non c’è“ e, appunto, “Ballate per piccole iene“ che sono due dischi sul disorientamento, sull’accettazione della propria mediocrità, sul fallimento degli obiettivi che ci si era prefissi. Ma anche una reazione ai fraintendimenti che s’erano creati sull’ironia di certi nostri pezzi. Anche se li amiamo molto, infatti, non volevamo essere Elio e le Storie Tese. Premessa che ha finito col renderle “Quello che non che non c’è“ e “Ballate per piccole iene“ i dischi più cupi della nostra discografia assieme a “Folfiri e Folfox“”.
Cosa accadde?
“Grazie anche all’opera di un produttore come l’ex leader degli Afghan Whigs, Greg Dulli, capace di toglierci la patina di provincialismo che qui in Italia ci portiamo dietro un po’ tutti, “Ballate per piccole iene“ venne fuori così a fuoco da diventare la colonna portante per i nostri concerti del ventennio successivo. Facemmo 146 date in giro per il mondo e, a alla fine, ci domandammo se volessimo rifare da capo la gavetta quando qui in Italia potevamo permetterci qualunque cosa. La risposta fu: no”.
Nel disco c’era pure “Carne fresca”, titolo poi trasformato in “Carne fresca: suoni del futuro” per l’iniziativa che tre volte alla settimana al Germi, il suo locale in via Simonetta, prova a cogliere quel che si muove nella musica giovanile. Tant’è che ogni sera il vostro show è aperto proprio da un paio d’artisti provenienti da questo vivaio.
“Anche se non mancano le dovute eccezioni, da vent’anni la musica italiana è una m**da. Una catena di montaggio ben oliata con pochi autori che tendono ad omologare il risultato artistico e favorire gli algoritmi che guidano gli ascolti. Oggi l’industria del disco vuole costi di produzione e distribuzione bassissimi, così i ragazzi provano a promuoversi da soli: una disgrazia che, però, in pochissimi casi, ha pure pagato. Già al primo disco fai magari San Siro, ma se poi non funzioni più ti levano dalle scatole e finisci sul lettino dello psichiatra in meno di un anno. Esiste, però, una nuova generazione di talenti lontana dall’idea del successo a tutti i costi, dall’omologazione, e dall’estetica dominante. Sono giovani che non suonano per i numeri, per la Ferrari o per la notorietà, ma per stare bene. Ed è a loro che intendiamo affidare il palco prima del nostro arrivo”.