Omicidio Lidia Macchi, a Stefano Binda annullato il risarcimento di 300mila euro per ingiusta detenzione

Al 55enne di Brebbia la Corte d'appello di Milano aveva riconosciuto un indennizzo di 303.277,38 euro per i 1.286 giorni vissuti in carcere con l’accusa di aver ucciso la studentessa di Varese

Stefano Binda e nel riquadro Lidia Macchi

Stefano Binda e nel riquadro Lidia Macchi

Varese, 12 giugno 2023 – Tutto da rifare per il risarcimento per ingiusta detenzione a Stefano Binda, assolto per non avere commesso il fatto per l'omicidio di Lidia Macchi.

La quarta sezione penale della Cassazione ha annullato, come richiesto dalla Procura generale di Milano, l'ordinanza con cui la Corte d'Appello di Milano aveva riconosciuto al 55enne di Brebbia un risarcimento di oltre 300mila euro e ha rinviato la questione alla stessa Corte d'Appello per un nuovo giudizio. L'udienza davanti alla Suprema Corte, già fissata per il 9 marzo, era slittata di tre mesi, al 9 giugno.

Lidia Macchi, 21anni quando morì
Lidia Macchi, 21anni quando morì

Nel mese di ottobre dello scorso anno la quinta sezione della Corte d'appello di Milano aveva accolto l'istanza per ingiusta detenzione avanzata da Binda, riconoscendogli un indennizzo di 303.277,38 euro per i 1.286 giorni vissuti in carcere. Giornate sottratte alla vita normale, trascorse in cella gravato dalla terribile accusa di essere il predatore assassino della studentessa di Varese, trucidata con ventinove coltellate la sera del 5 gennaio 1987, nella zona di Cittiglio.

Ma ecco il colpo di scena rappresentato dal ricorso in Cassazione della Procura generale di Milano, firmato dal sostituto pg Laura Gay. La richiesta sottoposta agli "ermellini" era quella di dichiarare che i giudici milanesi avevano sbagliato nell'interpretazione della legge che prevede l'indennizzo nei casi in cui l'arrestato non abbia concorso all'erroneo arresto con propri comportamenti, e soltanto colposi.

Non si trattava (era il punto centrale del ricorso) di entrare nel merito del verdetto di assoluzione, definitivo dopo i tre gradi di giudizio. Si doveva invece valutare se il comportamento di Binda (che in alcune occasioni si era avvalso della facoltà di non rispondere, peraltro un diritto garantito dalla norma) poteva essere un elemento su cui fondare la misura di custodia cautelare.

Secondo la Procura generale Binda "con i suoi silenzi" avrebbe "contribuito all'errore sulla sua carcerazione". Sulla base di un verdetto dello scorso anno della quarta sezione penale della Cassazione, la Procura generale riteneva che "la condotta mendace" negli interrogatori costituisse "condotta fortemente equivoca", tale da creare concorso nell'errore. In una memoria di una decina di pagine il difensore Patrizia Esposito aveva ribattuto punto su punto. I motivi del ricorso della Procura generale davanti alla Suprema Corte erano tutti inammissibili e infondati. Non c'era stato da parte di Binda un solo comportamento, non si era verificata una sola circostanza che potrebbero avere "spinto" l'emissione del provvedimento restrittivo e il suo mantenimento. Quello di tacere è un diritto dell'indagato. Ma Binda ha sempre risposto sia "prima" sia in seguito, durante il processo, quando la misura cautelare nei suoi confronti era ancora in corso. Binda venne arrestato il 15 gennaio 2016 con l'accusa di omicidio volontario aggravato. Il 24 aprile del 2018 il processo di primo grado davanti alla Corte d'Assise di Varese si concluse con la condanna all'ergastolo. Un verdetto ribaltato il 24 luglio 2019 dalla Corte d'Assise d'appello di Milano. Binda venne pienamente assolto e tornò libero. Il 27 gennaio 2021 il verdetto di assoluzione fu confermato e reso definitivo dalla Cassazione che respinse i ricorsi della Procura generale milanese e delle parti civili.