MARIACHIARA ROSSI
Vivere Lodi

Da Pieve Fissiraga alla Nazionale. Le mille vite di Andrea Dossena. Liverpool e Napoli, quante emozioni: "Ora sogno la gloria in panchina"

Da mister della Pro Vercelli sta facendo molto bene, ma l’ex calciatore azzurro non si ferma mai "E ai miei colleghi che allenano le giovanili dico: non mettete mai in gabbia il talento dei giovani".

Da Pieve Fissiraga alla Nazionale. Le mille vite di Andrea Dossena. Liverpool e Napoli, quante emozioni: "Ora sogno la gloria in panchina"

Da Pieve Fissiraga alla Nazionale. Le mille vite di Andrea Dossena. Liverpool e Napoli, quante emozioni: "Ora sogno la gloria in panchina"

Ne ha fatta di strada, in meno di quattro anni da “mister”, Andrea Dossena. "Sono punti di vista – sorride –. Se paragonato ad altri allenatori europei, mi sento già vecchio. Basta guardare alcuni profili già di fama internazionale in Bundesliga: Julian Nagelsmann, al Lipsia, ha 32 anni e si è fatto conoscere raccogliendo ottimi risultati dopo otto anni alla guida dell’Offenheim. Io ho smesso tardi, a 35 anni, ma non riuscivo proprio a dire addio al pallone...".

Qual è stata la parte più difficile da accettare nella sua carriera?

"La consapevolezza che non avrei più vissuto l’adrenalina da attore protagonista nei match. Da quando mi sono ritirato (indossava la maglia del Piacenza ed era il 2017, ndr) mi sono ripromesso che se avessi dovuto proseguire in questo mondo, lo avrei fatto solo in panchina. Sono uno a cui piace lavorare senza sosta, a cui non interessano molto le pubbliche relazioni. I ruoli di procuratore o direttore sportivo non mi si addicono".

Insomma, ha cambiato posizione in campo ma la voglia di combattere è rimasta la stessa.

"Sono cresciuto così. Dicono che lo stress faccia male, io non sono d’accordo. Quando arriva giugno vado in crisi perché non mi piacciono le ferie. Qui a Vercelli, per esempio, ho accettato un’altra sfida: guidare un gruppo di giovani promesse e guidarli verso la salvezza con largo anticipo".

Andiamo sul personale, a chi si sta ispirando?

"In realtà sto “rubando” un po’ da tutti quelli che ho incontrato lungo il mio cammino. In estate, quando cominciano i ritiri, ho preso l’abitudine di assistere agli allenamenti dei colleghi: da Sarri a De Zerbi fino a Giampaolo. L’ultimo mi ha sorpreso per la cura dei dettagli: ad ogni seduta faceva lavorare i difensori 50 minuti senza palla. Il campionato inglese mi ha trasmesso l’intensità di gioco".

Che ricordo ha dell’esperienza a Liverpool?

"Ero reduce da un’annata molto positiva con l’Udinese, ma con il senno di poi non so se farei la stessa scelta. Non me la sono goduta a pieno. Mi sono scontrato con un calcio molto fisico e con giocatori altrettanto fisici, quasi tutti sopra il metro e novanta. Dove ogni rimessa laterale si poteva tramutare in gol. Più di tutto, però, ho sofferto la mancanza di lavoro durante la settimana: Benitez aveva un metodo di allenamento completamente diverso da quello a cui ero abituato. I miei colleghi, Torres, Gerrard, Carragher, erano tutti dei campioni e a loro bastavano 50 minuti. Io ero solito faticare per oltre due ore...".

Parlando di campioni, a che punto è il calcio nostrano?

"C’è un discorso che riguarda il sistema e che parte dalle fondamenta. Io ho tirato i primi calci in strada a Pieve Fissiraga, nel Lodigiano, e mia mamma quando non era a casa mi diceva “stai fuori fino a quando rientro”, perché aveva paura che combinassi guai. Ora ai figli si dice: “Non uscire che è pericoloso”. Senza contare che in una classe di venti bambini, in percentuale, si sono ridotti quelli che vogliono diventare calciatori. Agli allenatori consiglio: lasciamo i ragazzi liberi di esprimersi, fare dribbling e faticare, c’è tutto il tempo per insegnargli a giocare a zona. Se no, si rischia solo di soddisfare il proprio ego, però mancando la premessa più importante: svilupparne il talento. Questo serve all’Italia per ripartire".