Uno degli agenti della polizia penitenziaria indagati era soprannominato “Mma”, come lo sport da combattimento, perché "picchiava forte e una volta con uno schiaffo ha fatto svenire un ragazzo". Tra i giovani detenuti si sapeva che "l’assistente più vecchio comanda", che per sentire meno dolore bisognava vestirsi "a strati" e ai nuovi arrivati veniva raccontato dai “veterani“, nella scuola interna al Beccaria, che "essere picchiati è normale".
Una pratica "reiterata e sistematica", la violenza anche in dieci contro uno come "condotta ordinaria degli agenti che vogliono stabilire le regole di civile convivenza nel carcere e imporle picchiando, aggredendo e offendendo", emerge dagli atti dell’inchiesta della Procura di Milano, coordinata dalla Squadra mobile e dal Nucleo investigativo della Polizia penitenziaria, che ha portato all’arresto di 13 agenti e alla sospensione dal servizio di altri 8 per le torture inflitte nel carcere minorile Beccaria di Milano. "Sei un arabo zingaro – avrebbero urlato gli agenti durante un pestaggio –. Noi siamo napoletani, voi siete arabi di m...Sei venuto ieri".
Una delle testimonianze raccolte riguarda un pestaggio avvenuto nel 2021: "Quando hanno iniziato a picchiarmi mi sono protetto raggomitolandomi con le braccia intorno al viso – ha raccontato il ragazzo ai pm – ero ammanettato e le ginocchia verso il petto per proteggermi dai colpi, ho sentito dei colpi sulla schiena e un bastone che si rompeva".
Gli ultimi episodi, invece, sono avvenuti quest’anno. Le indagini coordinate dai pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena sono partite da denunce degli stessi detenuti, dal racconto della mamma di uno di loro, dalla relazione di una psicologa e da segnalazioni arrivate sul tavolo dell’ex consigliere comunale del Pd David Gentili e dal Garante per i detenuti del Comune di Milano Francesco Maisto, poi trasmesse alla Procura.
Denunce dei ragazzi che hanno rotto il silenzio, perché i pestaggi rimanevano nell’ombra per "timore di ritorsioni e rappresaglie", accettati come la normalità della vita quotidiana in carcere. Il giorno dopo il pestaggio, ha messo a verbale uno dei ragazzi, "ho fatto una video chiamata con mia mamma che mi ha chiesto cosa mi era successo", notando i segni sul volto. La donna, quindi, ha fatto una foto al viso del figlio e ne ha parlato con un avvocato. Il 23 dicembre il detenuto è stato quindi avvicinato durante la colazione da un assistente: "Ti conviene ritirare la denuncia – avrebbe detto – se no sono problemi per te".
Un altro detenuto, prima di sporgere denuncia, si è provocato lividi per rendere evidenti le parti del corpo dove aveva subito lesioni inferte con metodi che consentivano di non lasciare tracce. "Ho parlato coi miei compagni – ha spiegato ai pm – e visto che volevo denunciarlo ho deciso di farmi due segni sul torace dandomi da solo dei pizzicotti perché non mi aveva lasciato segni".
Come emerge dall’ordinanza del gip Stefania Donadeo, dalle testimonianze e dalle immagini delle telecamere, "che parlano" e che sono "devastanti", e dalle intercettazioni ("Manco la mamma li riconosceva per quanti schiaffi hanno preso"), nella "sequenza" delle violenze ce n’è una ritenuta "la più grave": si tratta della spedizione punitiva nei confronti di un ragazzo che aveva la colpa di aver reagito alle molestie sessuali di una delle guardie.
In sei - il capoposto Gennaro Mainolfi, soprannominato Mma, Roberto Mastronicola, Federico Masci, Giuseppe di Cerbo, Cristian Meccariello e Raffaele Salzano, tutti ora in carcere - dopo averlo reso inoffensivo con spray al peperoncino, lo avrebbero insultato e preso a calci e pugni ovunque e, "una volta a terra", lo avrebbero ammanettato e colpito, mentre lui tentava di difendersi con un pezzo di piastrella. Poi, lo avrebbero portato al piano terra "in una cella di isolamento" dove lo avrebbero denudato e, sempre con le manette ai polsi, preso a cinghiate fino a farlo sanguinare, per poi lasciarlo là a terra, senza coperte o indumenti per un’ora. E il mattino successivo ancora insulti e botte.
Anche se alcune aggressioni sarebbero avvenute in stanze prive di videosorveglianza, tante altre sono venute alla luce dai racconti e dai filmati: pestaggi in dieci contro uno, "mazzate" o con la punta degli stivali o con calci assestati al volto con gli anfibi tanto da lasciare "l’impronta sulla nuca del detenuto", fino al punto da farli svenire oppure da fare così male da non poter dormire la notte. In alcuni casi la tecnica usata sarebbe stata tale da non lasciare il segno. E in più sputi e insulti anche a sfondo razzista, ragazzi denudati e umiliati. Una "pratica reiterata e sistematica" che sarebbe andata avanti impunita anche per via delle relazioni di servizio falsificate.