ANNA VAGLI
Cronaca

Quei ragazzi-killer senza un perché. “Uccidere è un gioco al limite”

Da Paderno a Viadana, la criminologa: questi giovani disprezzano gli altri, vogliono provare il brivido del delitto

Milano, 15 ottobre 2024 – Un pugno di secondi. Tanto è bastato a Daniele Rezza per cambiare tutto. Un ragazzo di 19 anni, un paio di cuffie da 15 euro, una coltellata. Manuel Mastrapasqua crolla a terra. Valore economico delle cuffie: zero. Valore umano: inestimabile. Eppure, quel colpo non è solo fisico, è l’urlo di un ragazzo che non sa più come contenere la tempesta dentro di sé.

Un fermo immagine tratto da un video diffuso il 13 ottobre 2024 mostra  Daniele Rezza, il 18enne di Rozzano che ha ucciso Manuel Mastropasqua
Un fermo immagine tratto da un video diffuso il 13 ottobre 2024 mostra Daniele Rezza, il 18enne di Rozzano che ha ucciso Manuel Mastropasqua

Daniele confessa: era nervoso, aveva avuto una brutta giornata. Ma davvero una “brutta giornata” può portare a tanto? La risposta è nascosta in profondità di un cervello rettiliano che reagisce in automatico. Non era la prima volta che Daniele si sentiva così: astio che cresce, si accumula fino a esplodere. E in quel momento, la ragione cede il passo all’istinto. Non è più questione di scelta, ma di sfogo. Per comportarsi con tale insensibilità, bisogna imparare a disprezzare gli altri, e quella notte Manuel era solo nel posto sbagliato, nel momento sbagliato.

Ma Daniele non è l’unico a imboccare questa strada. A Viadana, un altro 17enne si ritrova davanti a Maria Campai per un appuntamento sessuale. Quando lei lo rifiuta, tutto crolla.

Quel “no” diventa insopportabile, una ferita nell’orgoglio che il cervello emotivo non sa gestire. La rabbia esplode in violenza cieca: Maria non è più una persona, è solo un ostacolo da eliminare. Un’altra vita spezzata per un motivo apparentemente futile, e dietro quella coltellata si cela lo stesso dramma: una mente che non sa più contenere la frustrazione, che trasforma la sofferenza in distruzione. E poi c’è il caso più difficile da accettare. A Paderno Dugnano, un 17enne stermina la sua famiglia. Sessantotto coltellate. Colpisce sua madre, suo padre, il fratello di 12 anni. Qui non si tratta di un impulso incontrollato, ma di una violenza pianificata e meditata. “Se ci avessi pensato di più, non l’avrei fatto”, dice, ma quelle parole suonano vuote. Aveva pensato, e aveva deciso. Una razionalità che ha perso ogni freno, un odio profondo che si è sedimentato nel tempo, fino a esplodere con conseguenze devastanti. Tre storie diverse, tre giovani che hanno scelto la violenza come unica via di fuga.

Cosa li accomuna? Il disprezzo per la vita, l’incapacità di gestire il rifiuto, la frustrazione o il dolore. Ma non è solo questo: alcuni di loro uccidono per il brivido, per il gusto di esercitare un potere assoluto su un’altra persona. Come l’assassino di Maria Campai e prima ancora di Sharon Verzeni. Non è rabbia, non è vendetta: è un’esperienza estrema, un gioco al limite. Thrill-seeking killers, li chiamano i miei colleghi americani. Individui che non cercano rivalsa, ma emozioni forti, capaci di farli sentire vivi. Per loro, l’omicidio diventa un test: vogliono scoprire se riescono a mantenere il sangue freddo, se possono uccidere senza battere ciglio, se il vuoto che li consuma può essere colmato da un solo atto di pura violenza. Il valore della vita umana? Semplicemente inesistente. In questo mondo contorto, il sangue diventa il mezzo per esplorare la propria onnipotenza, per esercitare un controllo assoluto che non riescono a trovare altrove. E poi, c’è l’emulazione. Questi ragazzi vedono nei criminali che ammirano un riflesso di sé stessi, condividendo con loro la stessa solitudine, la stessa rabbia repressa.

Non è solo una questione di sfogo: è una lotta per il controllo, per riappropriarsi di una vita che sembra sfuggirgli dalle mani. In un mondo che li ha delusi, il sangue diventa la scorciatoia più veloce, la via più brutale per dimostrare a sé stessi che sono loro a comandare. Anche solo per un pugno di secondi.