
Giovanni Sgroi, 70 anni, medico eletto sindaco di Rivolta d’Adda nell’ottobre 2021
Milano, 24 maggio 2025 – “Agiva chiaramente come se non fosse una visita medica. Ricordo perfettamente la sua faccia, l’ho anche sognata per lungo tempo, sembrava che stesse godendo, che fosse eccitato, ho avuto incubi per mesi”. I segni delle violenze nelle parole di una delle vittime. La paura di non essere creduta. Il timore di fronteggiare la reazione di un “uomo molto potente”. Sara (nome di fantasia), trentaquattrenne bergamasca, è una delle quattro donne che sarebbero finite nella rete del dottor Giovanni Sgroi, settantenne di origini messinesi eletto sindaco di Rivolta d’Adda nell’ottobre 2021 con una lista civica legata al centrodestra e fino al 2019 direttore del dipartimento Area chirurgica dell’ospedale di Treviglio.
Un anno d’indagini
Due giorni fa, il politico è finito agli arresti domiciliari, accusato di violenza sessuale aggravata nell’indagine dei carabinieri del Nucleo investigativo di Milano scattata un anno fa: stando a quanto emerge dall’ordinanza di custodia cautelare emessa dalla gip Sara Cipolla su richiesta dell’aggiunta Maria Letizia Mannella e della pm Alessia Menegazzo, Sgroi avrebbe approfittato della “qualità di medico specializzato nell’apparato digerente presso il Centro medico polispecialistico (Cmp) di Pozzuolo Martesana” per costringere alcune pazienti a subire atti sessuali contro la loro volontà.

La prima denuncia
L’inchiesta scatta la sera del 14 maggio 2024, quando Beatrice (nome di fantasia), 23 anni, si presenta in una caserma dell’hinterland. Ai militari racconta che alle 15 si è recata al Cmp per una visita gastroenterologica col dottor Sgroi: spiega che il medico ha iniziato a porle domande e a rivolgerle apprezzamenti fisici (“Raccontami se hai altro da dirmi oltre a quello che mi hai già detto”, “Hai un bel fisico però, sei carina, sei magra per mangiare così tanto...”).
Poi gli abusi durante l’ecografia addominale, il saluto “Ciao piccolina” e l’indicazione alla segretaria “Fai uno sconto alla piccolina, falle pagare 90”. Frastornata e sotto choc, Beatrice chiama un amico, che le conferma che quelle modalità sono assolutamente irrituali e che non c’era alcun bisogno che l’uomo le sfilasse i pantaloni. Lei scoppia in lacrime, prova rabbia “per non aver avuto la forza di reagire in alcun modo” e “si sente sporca”. Il suo stato d’animo viene confermato dalla testimonianza della madre, a cui la figlia ha detto di essere rimasta “impietrita e paralizzata”.
Gli accertamenti a ritroso
I metodi da predatore fanno pensare ai carabinieri che possano esserci altri casi. E così gli investigatori di via Moscova, guidati dal colonnello Antonio Coppola e dal tenente colonnello Fabio Rufino, sequestrano la documentazione relativa alle pazienti di Sgroi e i dispositivi elettronici del camice bianco (i-Phone, tablet e pc portatile) per cercare tracce di altre potenziali vittime. Ne trovano tre, che inizialmente avevano scelto di non denunciare. La prima è Sara, che mette a verbale la sua esperienza choc avvenuta nel gennaio 2024, molto simile a quella vissuta da Beatrice: afferma di aver riferito tutto alla madre e che quest’ultima le ha consigliato di non segnalare l’accaduto alle forze dell’ordine, temendo “un uomo molto potente” come il sindaco di Rivolta d’Adda.
La donna aggiunge di essere in cura da una psicoterapeuta per provare a superare l’orrore. La seconda è Debora (nome di fantasia), 35 anni: la sua ricostruzione è identica a quella delle altre pazienti sentite in precedenza; così come lo sono le conseguenze traumatiche, che le impediranno di sfogarsi persino con il suo compagno “per vergogna e per paura di non essere creduta”. La terza è Marta (nome di fantasia), 43 anni: pure lei giustifica la mancata querela con il “timore di non essere creduta a causa della qualifica professionale dell’indagato”.
Gli altri casi sotto la lente
Le verifiche dei militari fanno emergere altri possibili casi: in particolare, l’attenzione si concentra su due donne, che spiegano di aver subìto palpeggiamenti e avance. E poi ci sono le chat dal contenuto “sessualmente esplicito” con alcune pazienti di una casa di cura di Reggio Calabria e gli appellativi usati per archiviare in rubrica sei numeri di telefono di altrettante ragazze (da “Bellissima mora” a “Stupenda bionda”).
L’ordinanza
Per la giudice Cipolla, “tutte le persone offese – prive di alcun rapporto di conoscenza tra loro – hanno reso racconti sostanzialmente sovrapponibili circa il modus operandi del medico”. Uno schema fisso, ripetuto almeno in quattro occasioni (anche se il sospetto è che ce ne siano altre che non si sono ancora fatte avanti): “Tutte le donne sono state sottoposte a pratiche e manovre risultate non coerenti con l’esame gastroenterologo”. E ancora: “Tutte le donne hanno riferito che il medico, al termine della visita, aveva invitato le pazienti a ricontattarlo per i controlli utilizzando il suo numero Whatsapp”. Di più: “Tutte le donne hanno riferito di essere ricorse a un ausilio psicologico, non solo al fine di superare il trauma subìto per essersi sentite sporche, quasi “complici” del gesto, per non aver capito e immediatamente reagito, ma anche per meglio elaborare la condotta subdola del medico, che, nell’ambito della professione e dunque nel corso del compimento di un atto medico, con spregiudicate modalità, ha utilizzato la professione medica come mera occasione del delitto”.
Il precedente del 2010
Dagli atti è emerso che Sgroi era già finito sotto inchiesta della Procura di Bergamo “per fatti analoghi”, nell’ambito di un procedimento penale aperto nel 2010. Ai tempi, però, il medico non era finito a processo: “A seguito dell’interrogatorio reso dopo la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini – si legge nell’ordinanza – il pm formalizzava richiesta di archiviazione”.