SIMONA BALLATORE
Cronaca

Giovani tra ansia e paure. Dondo, il sacerdote-psicologo che accoglie ragazzi con disturbi psichici e sociali: “Sono più aperti al mondo, ma fragili”

Don Domenico Storri della parrocchia di San Pietro in Sala: “C’è chi è rinato grazie al lavoro e ci sono i fallimenti. Noi adulti dobbiamo ascoltarli di più”

A destra, don Domenico Storri, alias il “Dondo“, psicoterapeuta e fondatore de iSemprevivi nella parrocchia San Pietro in Sala di Milano

A destra, don Domenico Storri, alias il “Dondo“, psicoterapeuta e fondatore de iSemprevivi nella parrocchia San Pietro in Sala di Milano

Milano, 25 maggio 2025 – “Il nome lo hanno scelto i ragazzi: andavamo spesso in montagna e il semprevivo è un fiore che cresce lì e che per vivere necessita di poca acqua, poco terreno. Anche un malato mentale necessita di poco per vivere: basta una comunità attenta, non giudicante e non piena di stigma”.

Don Domenico Storri, per tutti “il Dondo“, è psicoterapeuta e fondatore de iSemprevivi, associazione nata sotto l’ala della parrocchia San Pietro in Sala, che da vent’anni accoglie adolescenti e giovani adulti in situazioni di fragilità psicologica e sociale. È anche l’anima della “Crazy Week“, che fino a venerdì accenderà un faro sulla salute mentale, tra dibattiti scientifici, “Crazy Run“ - per lasciarsi alle spalle pure l’ansia da competitività - ed eventi.

Don Domenico, come stanno i nostri ragazzi? E sono davvero più fragili di un tempo?

“Il disagio esistenziale c’è sempre stato, fa parte di un’irrequietudine che accompagna la vita di tutti: chi non ha mai sofferto? È anche vero che in alcuni periodi storici il disagio è maggiore. Oggi abbiamo giovani che hanno risorse magnifiche, hanno la possibilità di viaggiare per il mondo in pochi secondi. Questo aprirsi al mondo in maniera così frammentaria, sporadica e veloce impedisce però loro di mettere radici. Ci vogliono pazienza, tenacia, perseveranza. Si diventa fragili se queste radici non hanno il tempo di radicarsi: al primo vento rischiano di cedere. Abbiamo giovani con grandi risorse, frustrazioni e fatiche”.

La Crazy Run, all'interno della Crazy Week che proseguirà fino al 30 maggio, si corre oggi 25 maggio con partenza dall'Arco della Pace
La Crazy Run, all'interno della Crazy Week che proseguirà fino al 30 maggio, si corre oggi 25 maggio con partenza dall'Arco della Pace

Quali sono i “sintomi“ di queste fatiche?

“Spesso non si sentono in grado, cadono in ansia, soffrono di disturbi psicosomatici, sentono che la comunità adulta non è in grado di ascoltarli. E se li ascoltiamo poco vanno in cerca di un altro canale di espressione: a volte può essere la musica, ma altre un agito violento o l’uso di stupefacenti come anestetici, per soffrire meno. Molti giovani usano lo spinello per lenire le loro sofferenze e paure per dieci minuti”.

Si fanno male. Fanno del male agli altri.

L’autolesionismo, l’attaccare il proprio corpo, è qualcosa che fanno per sentirsi vivi: tagliarsi diventa un ripiegamento su se stessi laddove non riescono a essere accolti o una richiesta di aiuto. Don Claudio Burgio ci ha spiegato che anche i ragazzi che vanno in giro con i coltelli e che facilmente cadono nell’usarli, il più delle volte li hanno con sé come forma di difesa. Non riescono a fidarsi più degli adulti, della legge. E ci deve interrogare sulle azioni da intraprendere”.

Cosa dicono i ragazzi al Dondo?

Ricordo le parole di una ragazza borderline, che per me sintetizzano tutto: “Io sono come te amplificata“, nel senso che vivo le tue stesse emozioni e paure ma le amplifico. La grande sfida che deve avere una comunità civile, parrocchiale e religiosa è ascoltare queste paure, queste emozioni e anche questo “disagio esistenziale“ e intercettarlo prima che diventi patologico”.

Come?

Serve una comunità adulta attenta, capace di dare risposte. A partire dalla famiglia: bisogna saper leggere i segnali, vedere se un ragazzo non dorme, se cambia il giorno per la notte, se si isola. Bisogna anche essere in grado di litigare con loro: troppo spesso non si ha il tempo di sedersi a tavolino, si è stanchi per sostenere una discussione. Interroghiamoci anche su che scuola stiamo loro consegnando: una scuola competitiva? Basata solo su nozionismo o che porta messaggi esistenziali? Fa tutto parte di un grande pacchetto che si chiama prevenzione”.

Don Domenico, lei è anche psicoterapeuta: quanto questo sguardo la aiuta nel confronto con i ragazzi?

Ho sempre avuto questa attenzione - oltre che all’aspetto teologico - a quello psicologico. Non fine a se stesso però. Per me è uno strumento in più per vivere al meglio il mio ministero: bisogna capire non solo la dimensione spirituale ma paure, emozioni, comportamenti. La psicologia per me è al servizio dell’impegno pastorale, non sono due entità parallele e divergenti: le ho fatte convergere. Sono un sacerdote-psicologo”.

Come ha avuto inizio questo percorso?

Prima è venuta lo studio della Teologia. Poi sono stato per dieci anni all’oratorio di Melegnano e quando mi sono trasferito a Milano ho cominciato a studiare Psicologia all’università Cattolica: mi sono laureato nel 2007”.

Quanti ragazzi ha accolto in questi anni? Quante rinascite ha visto dal suo osservatorio?

A occhio e croce 500, 600. E di rinascite ne abbiamo viste parecchie, come di fallimenti. Siamo riusciti anche ad assumere nella nostra cooperativa 12 ragazzi che avevamo seguito. E il lavoro cambia la vita, come la scuola. Qualcuno dei nostri ragazzi è tornato a studiare, si è diplomato, laureato. C’è chi oggi ha creato una famiglia”.

E i fallimenti?

Bisogna metterlo in conto e fanno parte dell’essere impotenti davanti a certe dinamiche. Li vediamo nei continui accessi ai pronto soccorso, nei ricoveri”.

Che storie hanno alle spalle?

“Ci possono essere fattori di rischio, ma il disagio colpisce tutti: il ricco, il povero, l’analfabeta e il laureato. Ci sono trascurati e il viziati”.

I giovani chiedono aiuto?

“C’è chi è consapevole del disagio e si fa avanti e chi non lo chiede: a volte vengono i genitori, ma i figli dicono di non aver bisogno di nessuno e si finisce su un binario morto. Se c’è la percezione del disagio si può cominciare a lavorarci su”.

Nella Milano tempestata da week, lei e la sua associazione ne avete voluta una più “crazy“. Perché?

“È nata quattro anni fa per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla salute mentale, utilizzando linguaggi diversi. Anche lo sport: alla Crazy Run si corre non per vincere ma per esserci. Si ascoltano storie di chi ha avuto un passato travagliato ed è diventato educatore. Si creano occasioni di aggregazione e dibattiti. Simona Police, la nostra bravissima direttrice, ha pensato a un linguaggio plurimo, che possa coinvolgere tutti, per lanciare messaggi positivi. Il nostro è un gioco di squadra”.