
Endometriosi, vulvodinia e neuropatie del pudendo colpiscono moltissime donne
Milano, 10 dicembre 2024 – Un dolore senza nome continua a segnare la vita di troppe donne affette da endometriosi o vulvodinia. Patologie “invisibili“ il cui ritardo diagnostico incide sulla quotidianità, sulle relazioni e sulla psiche di pazienti che vedono costantemente invalidata la loro sofferenza. “Ho trascorso più di 10 anni della mia vita con una cistite cronica e dolori atroci: nel 2020 non riuscivo più nemmeno a camminare”, ricorda Giorgia Soleri, influencer milanese di 28 anni.
La sua odissea per arrivare a una diagnosi non è una testimonianza isolata: in Italia i casi conclamati di endometriosi sono almeno 3 milioni, mentre si stima che la vulvodinia arrivi a colpire fino al 18% delle donne nel corso della vita.
Patologie poco studiate
Nonostante la diffusione, spesso queste patologie rimangono a lungo non curate: “Sono ancora poco studiate e in molti casi la loro valutazione richiede strumenti e specialisti precisi - spiega Barbara Gardella, ginecologa e consulente del comitato Vulvodinia e neuropatia del pudendo -. Inoltre, in ambito ginecologico molto spesso c’è una ‘normalizzazione’ del dolore ai danni di molte pazienti”.
Così fitte, crampi e bruciori diventano fedeli compagni di donne che si svegliano e vanno a dormire col pensiero di essere nate per soffrire. “Ho iniziato a credere che il mio corpo fosse programmato male, dopo anni non riuscivo ad avere più speranza - racconta Soleri -. Ho visitato dozzine di professionisti e ho ricevuto le risposte più disparate: alcuni mi hanno detto che avevo la soglia del dolore bassa; a 16 anni mi hanno persino consigliato di bere un bicchiere di vino prima di avere rapporti. Mi ero convinta che fosse tutta colpa mia”.
Un punto di partenza
Il recente aggiornamento dei Lea (Livelli essenziali di assistenza) che mette a carico del servizio sanitario nazionale alcune terapie per l’endometriosi è considerato solo un punto di partenza da attivisti, pazienti e ginecologici: “Riguarda solo le donne che hanno una diagnosi al terzo e quarto stadio - spiega la dottoressa Gardella -. Ci sono persone ancora al primo stadio che stanno comunque molto male ma non possono accedere gratuitamente a quelle terapie”.
Il costo delle visite con gli specialisti - chi soffre di queste malattie non si reca solo dai ginecologi ma anche da urologi, fisioterapisti e spesso psicologi a causa del dolore invalidante - e dei medicinali è un altro tasto dolente: “Spendo quasi mille euro al mese per curarmi: vorrei sapere quante donne in Italia possono permetterselo - afferma Soleri -. E nonostante il mio privilegio ho ricevuto una diagnosi dopo 10 anni”.
Per molte donne dare un nome al proprio dolore rimane un miraggio ancora troppo lontano. “Questo iter lunghissimo mi ha tolto tanto ma in cambio mi ha lasciato qualcosa: il potere della condivisione - conclude l’influencer -. Raccontare la nostra esperienza di esseri umani è fondamentale per evitare che altri provino il nostro stesso dolore”.