
Loredana Cirillo, psicologa e psicoterapeuta dell’Istituto Minotauro
MILANO – “Non sono bambini, sono preadolescenti. E questo deve essere chiaro se si vuole cercare di capire come intervenire adesso”. Loredana Cirillo, psicologa e psicoterapeuta dell’Istituto Minotauro, autrice del libro Soffrire di adolescenza. Il dolore muto di una generazione (Raffaello Cortina editore) parte da qui per analizzare la tragedia di via Saponaro: Cecilia De Astis, 71 anni, è stata travolta e uccisa da un’auto con a bordo quattro ragazzini tra gli 11 e i 13 anni.
Inquadriamoli.
“Non sono bambini, come invece li si sta definendo ancora. Sono quattro preadolescenti. La preadolescenza è una fase del ciclo di vita molto breve, che solitamente racchiude i tre anni della scuola media: 11, 12, 13 anni, anche se tende a precocizzarsi e spesso comincia già negli ultimi anni della scuola primaria”.
Fase di per sé già particolarmente delicata?
“Sì, è un’età in cui avvenivano, anche a livello di società, riti di passaggio. Ed è una “terra di nessuno“. È un’età in cui si sperimenta, ci si mette alla prova. A volte anche in modo folle. Abbiamo in mente azioni sconsiderate, ragazzini che scavalcano e si arrampicano sui tetti mettendosi in pericolo, salti nel vuoto senza avere chiare le conseguenze dei propri gesti, anche se è l’età in cui si inizia a capire che non si è immortali”.
Non andavano a scuola. Da quando sono arrivati a Milano, a novembre, non sono mai stati iscritti. E prima non si sa.
“Andrà chiarito anche come possano essere usciti così dai radar. In questo caso non c’è un tema di ritiro scolastico nei termini che abbiamo imparato a conoscere, ma una situazione di grave marginalità. Se questa fase già delicata della preadolescenza si innesta su un tessuto in cui mancano riferimenti educativi e sociali il rischio è ancora più grande. Crescere in contesti in cui furti e aggressioni verso gli altri sono più frequenti ha un suo impatto, ma questo rischio vale per tutti, sia chiaro. E c’è un’altra dimensione che non possiamo dimenticare in questa storia”.
Quale?
“La dimensione del gruppo, che può portare alla deriva. Quando sopraggiungono noia, tristezza, depressione, mancanza di stimoli e del controllo degli adulti – in termini anche affettivi e relazionali – si possono compiere gesti che altrimenti da solo non avresti compiuto. C’è un nuovo soggetto psichico che entra in gioco: la mente di gruppo che, volta a esorcizzare il vuoto, può assumere tratti violenti”.
Si saranno resi conto della gravità di quanto successo?
“Serve una presa di coscienza di quanto accaduto anche da parte degli adulti di riferimento. Il lavoro deve partire dalle famiglie. Sul perché sia potuto succedere un fatto così grave possiamo al momento fare solo speculazioni: ci può essere una parte di emulazione, un’assenza di stimoli e di risorse. Ma quello che è accaduto ci racconta soprattutto uno stato di abbandono educativo e sociale. La scuola, il tessuto sociale, la rete dei servizi non sempre riescono ad arrivare. Non è una questione di “colpa“ dei servizi, ma certo di fatica nella presa in carico di situazioni in cui spesso manca prima di tutto la collaborazione degli adulti”.
Sono stati riaffidati alle famiglie dopo il fatto, sono scappati, sono stati rintracciati e ora in una struttura protetta. Non sono imputabili, ma è giusto in questi casi dare subito un’altra chance alle famiglie?
“Si capirà dalle carte il perché di questa scelta iniziale, se sia dovuta a una scarsità di risorse sul territorio in quel momento o se si sia ritenuto che le famiglie avessero adeguate risorse. Anche se al momento sfugge, visto il tema della mancanza di scolarizzazione. Certo i servizi sono oberati, i tempi si allungano, la dimensione sociale del disagio sta crescendo e non riguarda solo le persone ai margini ma la popolazione tutta delle nostre città. Ma è stato commesso un reato gravissimo e non possiamo lasciarli soli, in tutti i sensi”.
Che fare? Da dove ripartire?
“Va considerato l’aspetto psicologico. Bisogna capire con i ragazzi perché l’abbiano fatto, ricostruire con loro – e con le famiglie – quanto successo per prenderne coscienza. Non si può far finta di nulla. Per la vittima e i familiari della donna che ha perso la vita ma anche per i ragazzi, vittime a loro volta. Il fatto che si dica “sono solo bambini“ vuol dire non rendersi conto della gravità ed esporli a nuovi rischi, per se stessi e per gli altri. Vanno seguiti dal punto di vista psicologico, sociale, educativo. Servono percorsi integrati adatti alla loro età, anche per evitare recidive”.