ROBERTA RAMPINI
Cronaca

Bossetti e la seconda vita in carcere: le foto mai viste in officina

Il muratore, 54 anni, sconta l’ergastolo a Bollate per l’omicidio di Yara. Il progetto prevede il trasferimento di un ramo delle aziende nell’istituto

Massimo Bossetti, 54 anni, eragstolano ed ex muratore di Mapello, al lavoro nella nuova officina aperta all’interno del carcere (frame dal video di Tgcom24)

Massimo Bossetti, 54 anni, ex muratore di Mapello, mentre lavora con altri detenuti. Sconta l’ergastolo

Bollate (Milano), 25 novembre 2024 – Da tecnico che riparava macchine industriali per il caffè espresso ad ’artigiano’ che produce lamierini di finitura. È il nuovo capitolo della vita in carcere di Massimo Bossetti, il carpentiere di Mapello, 53 anni, condannato all’ergastolo in via definitiva per l’omicidio di Yara Gambirasio, detenuto nel carcere di Milano Bollate. Bossetti è uno dei dodici detenuti formati e assunti dalla Coimec - Coibetazioni Termoacustiche Spa di Cormano, che ha scelto di aprire un’officina nell’area industriale dell’istituto di pena alle porte di Milano. Lui, con gli altri undici, nei mesi scorsi prima ha frequentato un corso sulla sicurezza negli ambienti di lavoro e poi uno di formazione professionale nell’officina del carcere, che è stata aperta ad agosto nella stessa area in cui nell’anno del Covid si producevano 850mila mascherine protettive.

Il progetto

La nuova realtà industriale fa parte del Progetto 2121 una partnership tra pubblico e privato che coinvolge, oltre alle istituzioni locali e al Ministero della Giustizia, ben 36 aziende che già lavorano nei cantieri di Mind (la smart city che sorge tra Milano e Rho) e che ha come obiettivo la formazione e l’inserimento lavorativo dei detenuti. Bossetti è stato trasferito dall’istituto di Bergamo dove si trovava, nel carcere milanese nel 2019.

Attraverso un’istanza dei suoi avvocati, aveva chiesto di lasciare la struttura bergamasca dove era detenuto dal giugno 2014, dopo l’arresto con l’accusa di essere l’assassino di Yara, proprio a causa dell’assenza di programmi di lavoro per i detenuti. Nella casa di reclusione milanese Bossetti da ‘operoso’ lavoratore bergamasco aveva chiesto subito di lavorare, prendendo parte alle attività previste per i detenuti, per aiutare economicamente la sua famiglia. Così è stato.

Prima ha lavorato come tecnico rigeneratore di macchine per caffè espresso. Quando l’azienda ha chiuso la sua attività dietro le sbarre, Bossetti ha partecipato alla selezione e al colloquio di rito ed è stato assunto dalla Coimec. Recluso nel quinto reparto, oltre ad essere un operaio della nuova realtà industriale, la sua vita dietro le sbarre è «molto atttiva», partecipa a concorsi di cucina a bandi di concorsi letterari e artistici.

Massimo Bossetti e Yara Gambirasio
Massimo Bossetti e Yara Gambirasio

Il delitto

"Partecipo semplicemente per rendere meno pesante il trascorrere inutile del tempo rendendolo più costruttivo”, aveva dichiarato. Da un punto di vista processuale, la vicenda dell’omicidio di Yara Gambirasio, 13enne ritrovata senza vita in un campo a Chignolo d’Isola, nella Bergamasco, si è conclusa il 12 ottobre 2018 quando Bossetti è stato condannato all’ergastolo in via definitiva, ritenuto colpevole in base ai test del Dna rinvenuto sul corpo della vittima.

La pm Letizia Ruggeri
La pm Letizia Ruggeri

I reperti

Da allora Bossetti continua a dichiarare la propria innocenza, una strenua battaglia attorno ai reperti dell’inchiesta sull’omicidio passata anche attraverso il via libera della Cassazione affinché la difesa di Bossetti possa visionarli. Lo scorso ottobre si è svolta una prima audizione in video-collegamento dal carcere di Bollate.

Presenti gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che assistono Massimo Bossetti, affiancati dal genetista Marzio Capra, la pm Letizia Ruggeri affiancata dal procuratore Maurizio Romanelli, e gli avvocati della famiglia Gambirasio, Enrico Pelillo e Andrea Pezzotta. La prossima udienza è stata fissata per il 2 dicembre.

Una storia apparentemente infinita in cui la realtà si è mescolata al piccolo schermo. Lo scorso luglio il documentario Netflix di cinque episodi, “Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio” (punto interrogativo omesso ma intuibile), la docuserie prodotta da Quarantadue, prodotta da Gianluca Neri e della sua squadra, ha fatto molto discutere.