
Francesco Cavestri, pianista e compositore, classe 2003, insieme al trombettista Paolo Fresu, uno dei grandi artisti con cui ha collaborato
Due mesi fa la tastiera con il suo Steinway ha sfogliato pagine di Paul Bowles e Pu Yi inseguendo sul grande schermo le partiture scritte da Ryuichi Sakamoto per capolavori di Bernardo Bertolucci come “Il tè nel deserto” e “L’ultimo imperatore”. Martedì prossimo Francesco Cavestri plana al Blue Note per offrire un assaggio del suo nuovo album, in uscita a inizio 2026, con la partecipazione di una misteriosa quanto straordinaria "special guest a sorpresa, una voce celestiale, da tempo amica del Blue Note". Due indizi che fanno una prova. O quasi.
Cavestri iniziamo dalla voce celestiale. Non è, per caso, che ha iniziato nel coro di voci bianche della Scala?
"Potrebbe".
E che, seppur milanese, vive a Berlino, con numerosi Festival di Sanremo sulle spalle e pure un paio di musical?
"Chissà. Comunque, a me affascino tantissimo questi musicisti dalla curiosità tanto ampia da trascendere il mondo musicale che hanno scelto di frequentare. Perché è una cosa che cerco di fare anch’io. Pur appartenendo al jazz, non sfuggo le contaminazioni con altri generi come l’elettronica, l’hip hop, la musica da film e molto altro".
Infatti ha realizzato pure un brano con Willie Peyote.
"S’intitola “Entropia“, l’abbiamo presentato un anno fa qui a Milano, alla Trennale, per JazzMi. È uscito il 21 gennaio, poco prima che lui partisse per Sanremo".
Diplomato al Conservatorio di Bologna in pianoforte col massimo dei voti, abituato a bruciare le tappe. Riferimenti?
"Quando ti porti dentro una passione come la mia, non puoi fare altro che andare avanti e progredire. Grazie anche a collaborazioni con artisti straordinari come Paolo Fresu o Fabrizio Bosso, che ha creduto in me da subito collaborando fin dal primo album. È stato uno dei miei mentori, assieme al professore di pianoforte jazz che avevo al conservatorio, Teo Ciavarella, già al fianco di gente come Dalla, Capossela, Virginia Raffaele, purtroppo scomparso la scorsa primavera".
Chi si porta al Blue Note?
"Il mio Trio. Concerto elettrico, oltre al pianoforte avrò pure i sintetizzatori".
Alla sua età, 22 anni, uno ha la testa piena di sogni. Cosa le piacerebbe fare?
"La colonna sonora di un film di Martin Scorsese, ma la vedo complicata. Quindi dico quella di un film di Paolo Sorrentino con un cast hollywoodiano. Pure suonare un giorno al Blue Note di New York".
Quello di Tokyo no?
"E perché mai? Alcuni degli album dal vivo più belli della storia del jazz sono stati incisi in Giappone. Come “Trio in Tokyo“ di Michel Petrucciani, con Steve Gadd alla batteria ed Anthony Jackson al basso, nel 1997 proprio al Blue Note. Uno dei live più incredibili che conosca".