MARIO BORRA
Cronaca

Covid, il paziente uno di Codogno e il primo tampone positivo: “Lessi l’esito sei volte. Mi sembrava impossibile”

I ricordi del coordinatore infermieristico Giorgio Milesi: per giorni siamo rimasti blindati in ospedale. Il rapporto con il dolore, la morte non sarà più come prima

Gli operatori sanitari dell'ospedale nei giorni caldi dell'emergenza Covid

Gli operatori sanitari dell'ospedale nei giorni caldi dell'emergenza Covid

“Il fax con il risultato del tampone arrivò attorno alle 21. Lo lessi cinque-sei volte per essere sicuro di cosa c’era scritto. Non tremai però, volevo solo essere solo sicuro di dare una notizia attendibile. In quel momento vinse la professionalità, il rigore, il senso del dovere; prevalsero dopo le reazioni emotive". Ora però il brivido corre sulla schiena ricordando quel giorno, il 20 febbraio del 2020, e in quei momenti la storia si materializzò in pochi secondi nelle mani di Giorgio Milesi, allora 36enne coordinatore infermieristico della Terapia Intensiva dell’ospedale di Codogno.

"È Covid", disse entrando nella stanza dei medici in attesa che l’ospedale Sacco di Milano processasse il tampone che Milesi in persona aveva effettuato attorno alle 11.30 a Mattia Maestri quello che divenne ben presto il paziente uno. "Ero coordinatore da pochi mesi e quel giovedì lo ricordo bene – racconta – la giornata stava andando come da routine quando attorno alle 10.30 arriva una telefonata dell’arrivo di un paziente giovane con polmonite. Ricordo che uscii dal reparto per andare a parlare con la moglie per lo solite domande che si fanno in questi casi. Lei spiegò un po’ gli ultimi giorni del marito trascorsi tra febbre alta e ricovero in Pronto soccorso e nel reparto di Medicina mentre in un passaggio della chiacchierata citò anche di un incontro di lavoro con un collega appena rientrato dalla Cina".

«Dentro di me ero tranquillo – aggiunge –, ero certo che qualsiasi ipotesi che si trattasse di Coronavirus era non solo remota, ma impossibile. Avevo affrontato altre emergenze legate a virus molto pericolosi, ma tutto era sempre rimasto sotto controllo. Poi però cambiò tutto in un attimo. Facemmo due tamponi, uno per l’H1N1 e l’altro per il Covid e aspettammo il responso. Verso le 18 arrivò una telefonata dal Sacco che chiedeva più tempo, poi alla 21 giunse il fax. Lo rilessi più volte per essere sicuro di aver visto giusto". Da quel momento fu l’inferno. "Trasferimmo i pazienti positivi e accogliemmo quelli malati che erano al Pronto soccorso – spiega sempre Milesi –. Anche se ebbi la lucidità di bloccare il turno notturno per evitare eventuali contagi e di fermare coloro che avevano fatto il pomeriggio. Richiamammo il turno della mattina che in qualche modo aveva avuto a che fare con il paziente uno". Poi le settimane successive, le più dure. Quasi eroiche.

«Si formò un gruppo di cinque persone-operatori straordinario che rimase in ospedale per circa una settimana cambiandosi di turno da dodici ore ma rimanendo nel presidio blindato - dice ancora -. Vivemmo in simbiosi mangiando e dormendo lì fino al 28 febbraio. Non perdemmo però mai il sorriso. Eravamo un gruppo unito, affiatato e questi aspetti alleggerirono quei momenti drammatici. Anzi fecero la differenza. Dei pazienti che arrivarono da noi si salvarono tutti, tranne un 97enne con patologie pregresse". Il rapporto con il dolore, la morte non sarà più come prima ora.

"Abbiamo sicuramente un approccio diverso per il lavoro che facciamo ma in quel periodo ricordo che per un mese intero non trascorse un giorno durante il quale non morì qualcuno – rivela –. Ci accorgemmo che la morte fu così falciante e spietata che se c’è chi dice che non è cambiato, mente. E oggi affrontiamo il lavoro diversamente. Come se avessimo la consapevolezza di aver visto il peggio. Anche con più paura direi del contagio. E gli utenti continuano a fidarsi di noi, ma non a occhi chiusi. Sono più esigenti ed informati. Se riflettiamo sul mondo sanitario possiamo dire che allora stava soffrendo e non era pronto ad affrontare quello che c’è stato. Ma allora se Codogno e Lodi non avessero eretto il muro, a Milano ci sarebbe stata una ecotambe. Oggi c’è crisi di personale, soprattutto infermieristico, ma credo che, nonostante tutti i problemi, sia sempre un lavoro gratificante".