CHRISTIAN SORMANI
Cronaca

Omicidio Ravasio, silenzi e connivenze a Parabiago. L’agente di Polizia locale “ossessionato” dall’auto

Il vigile, indagato nel processo, si avvale della facoltà di non rispondere. Ricostruiti in aula anche l’anomala richiesta di residenza per i figli di Adilma e la sceneggiata in municipio

Fabio Ravasio aveva 53 anni La brasiliana Adilma Pereira di 49 anni è accusata di essere la mente dell’omicidio

Fabio Ravasio aveva 53 anni La brasiliana Adilma Pereira di 49 anni è accusata di essere la mente dell’omicidio

Parabiago (Milano), 9 giugno 2025 - Il processo per l’omicidio di Fabio Ravasio prende una piega sempre più inquietante. Nell’aula del tribunale, tra testimonianze serrate e ricostruzioni minuziose, emergono nuovi elementi che gettano altre ombre pesanti sulla comunità parabiaghese e sulle connivenze presenti. 

A parlare è un ex funzionario della polizia locale di Parabiago, oggi comandante in un comune della zona, che ha raccontato di come l'agente A.C., pur essendo in vacanza, si sia interessato in maniera anomala fin dalle primissime ore all’incidente costato la vita a Ravasio. “Mi scrisse su WhatsApp chiedendomi se i carabinieri stessero cercando una Opel – ha raccontato in aula – gli risposi che non ne avevo idea, che le indagini erano in mano ai carabinieri. Ma continuava a chiamare, anche nei giorni successivi, sempre dalla vacanza. Sembrava ossessionato da quell’auto”.

Un comportamento inspiegabile, se non si considera un dettaglio che ha fatto sobbalzare anche i giudici: subito dopo l’incidente, l’agente A.C. si trovava a casa proprio di Adilma, la stessa donna che – secondo l’accusa – avrebbe avuto un ruolo centrale nella pianificazione dell’omicidio. Un intreccio personale e professionale che oggi appare come un nodo fondamentale per comprendere la vera natura di quella tragedia.

Ma le stranezze non finiscono qui. Nei mesi precedenti all’omicidio, Adilma aveva avviato – con l’aiuto diretto dell’agente A.C. – una controversa pratica presso l’anagrafe comunale per far ottenere la residenza ai due figli, che sosteneva fossero figli di Fabio Ravasio. I funzionari, però, trovarono subito gravi incongruenze: i cognomi sui certificati di nascita erano diversi (Trifone), la bambina aveva un secondo nome non dichiarato, e i passaporti risultarono falsi. “Gli estratti sembravano contraffatti – hanno dichiarato i responsabili comunali – e c’erano anomalie evidenti anche nei contatti con il Comune di Monza”.

Eppure, nonostante i sospetti, la vicenda non fu subito segnalata alla Procura da parte degli uffici del comune. Una scelta motivata dal fatto che i documenti non legavano direttamente i minori a Ravasio. Intanto, i genitori della vittima – preoccupati per quanto stava accadendo – iniziarono a inviare mail e segnalazioni ufficiali, chiedendo che venissero avviati controlli approfonditi.

In un’occasione, Adilma si presentò in lacrime negli uffici interni del municipio di Parabiago, raccontando di essere stata maltrattata dai genitori di Fabio e implorando che venisse riconosciuta la residenza per i figli. Una scena teatrale, secondo chi l’ha vista, perfettamente costruita per muovere compassione e mascherare una battaglia che, sotto la superficie, aveva contorni molto più torbidi: una guerra per il controllo dei beni e dell’eredità di Ravasio.

Nel frattempo, l’agente A.C. – ora ufficialmente coinvolto nell’inchiesta – ha scelto in tribunale la via del silenzio: in aula si è avvalso della facoltà di non rispondere alle domande. Un silenzio che oggi pesa, e che alimenta altri sospetti. Il mosaico che si sta componendo in tribunale mostra l’immagine di un delitto premeditato, orchestrato con freddezza e precisione, dove interessi economici, finte emozioni e legami nascosti si intrecciano in un disegno inquietante.