GIANLUCA BOSIA
Editoriale e Commento

Adottivo non è un marchio sociale

L’uso dell’aggettivo è spesso usato quando non serve ma per marcare una sorta di diversità di genere

Ci risiamo. La cronaca giornalistica ci consegna decine di articoli dove, dal titolo al "pezzo", a fianco del sostantivo padre, madre e figlio c'è l'aggettivo adottivo utilizzato solo  per marcare una sorta di diversità. Presunta diversità che non è, giustamente, accettata o politicamente ritenuta corretta in altri contesti: nessuno scriverebbe mai - tranne nella cloaca social - padre di un figlio gender o colpevole di mamma single oppure prodotto di una educazione non tradizionale o incrocio di razze. Ovviamente l'aggettivo adottivo vale per la tristissima storia di Cremona, ma qui il discorso è altro, e l'uso è giusto e legittimo. Figlio o genitore biologico è utilizzato ma solo se si tratta di una saga famigliare magari con una ricca eredità e una pelosa strizzatina d'occhio a un tradimento tra marito e moglie o viceversa.

Però essere genitore adottivo o figlio adottato è un elemento ritenuto fondamentale nella narrazione della cronaca soprattutto nera. Marchio di infamia, pietismo o acchiappa click? L'ultima ipotesi non è escludibile, anzi, ma probabilmente in questo caso entrano in gioco ignoranza o retaggio di un passato tra il patriarcale e il non sapere cosa significhi adozione: incontro e famiglia, esattamente come sessualmente procreare solo con più emozione e meno coinvolgimento fisico diretto.

E allora chiariamo una volta per tutte: non è uno stato sociale l'essere genitori o ragazzi adottivi. Esistono solo - anche per legge - padre, madre e figlio. Magari con problemi diversi rispetto ai "biologici" non fosse altro perché il percorso genitoriale è inevitabilmente particolare e il passato dei ragazzi spesso segnato da orrori. Spezzoni di vita che per loro natura figli e genitori biologici, per loro fortuna, raramente hanno vissuto.