Assolto dopo due anni di carcere, fa ricorso in Cassazione ma non sarà risarcito: ecco perché

Pontelambro, la Suprema Corte come i giudici d’Assise respingono la domanda: "Il comportamento del siriano ha spinto l’autorità giudiziaria a sospettare fortemente di lui".

I giudici leggono il verdetto

I giudici leggono il verdetto

Nel 2022 era stato assolto dalla Corte d’Assise di Como dall’accusa di aver raccolto denaro destinato a finanziare il terrorismo in Siria e di esercizio abusivo di attività finanziaria. Ora Ayoub Chaddad, siriano di 42 anni residente a Pontelambro, ha chiesto alla Corte di Cassazione di ottenere il risarcimento per due anni di ingiusta detenzione in custodia cautelare, dal 10 maggio 2018 al 23 maggio 2020. Ma la suprema Corte, confermando quanto già stabilito dalla Corte d’Assise, ha ritenuto che non ci fossero i presupposti per accogliere la domanda, "avendo lo stesso contribuito con il proprio comportamento a indurre l’autorità giudiziaria a intervenire nei propri confronti a causa della condotta tenuta dall’imputato durante le indagini".

In particolare, analizzando le risultanze processuali, i giudici hanno evidenziato che "la vicenda processuale relativa al ricorrente era stata determinata dall’analisi della figura social dello stesso, e dall’operazione svolta sotto copertura da un agente; tali attività avevano consentito di accertare la vicinanza sua e dei suoi familiari ad ambienti terroristici o, comunque, combattenti contro il regime, e lo stesso imputato aveva ammesso di aver combattuto per l’esercito libero siriano".

Inoltre la sentenza di assoluzione aveva accertato come esistente un episodio in cui si intuiva la partecipazione di Chaddad a un’operazione di finanziamento hawala – un sistema informale di trasferimento del denaro - del gruppo di persone indagate, "sulla base di telefonate intercettate sulla sua utenza". In tema di riparazione per ingiusta detenzione, concludono i giudici, costituisce causa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo la sussistenza di un comportamento del richiedente, "che abbia concorso a darvi luogo con dolo o colpa grave, come autoincolpazione o silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi".