
Zyber Curri l’operaio edile morto il 12 dicembre 2018 in un incidente sul lavoro mentre si trovava in un cantiere in Val Cavargna
Ha smesso di essere un fantasma per legge due mesi fa Zyber Curri, l’operaio edile morto il 12 dicembre 2018 in un incidente sul lavoro mentre si trovava in un cantiere in Val Cavargna, impegnato nella posa di tubature per la costruzione di una centrale idroelettrica. È scivolato in un dirupo battendo la testa più volte. Sei anni dopo la Corte di Cassazione ha rigettato anche l’ultimo ricorso contro i risarcimenti per la famiglia di Curri, sanciti dal Tribunale di Como e confermati dalla Corte d’appello di Milano. Giustizia però non è ancora fatta, perché al di là delle responsabilità penali ci sono i risarcimenti civili che per ora sono solo sulla carta.
"Abbiamo iniziato questa lotta perché vogliamo i diritti di nostro padre, lui da vivo non li ha avuti e adesso vogliamo portarli alla luce - spiega la figlia dell’operaio, Emine Curri - Abbiamo avuto il nostro lutto e la nostra sofferenza, mentre soffrivamo vedevamo uscire gli articoli in cui dicevano che nostro padre era un fantasma, i suoi datori di lavoro dicevano di conoscerlo, ma che non lavorava per loro. Il nostro padre andava in trasferta, partiva il lunedì e tornava il venerdì, e andava lì per lavorare, scaricava tutto dalla macchina partiva a piedi e andava sù. La rabbia che abbiamo è per dire che questa persona esiste e aveva dei diritti". Eppure fino alla fine i responsabili del cantiere hanno negato che lui lavorava lì.
"Parlavo con papà, mi diceva che stava lavorando con un’azienda di Sondrio, in provincia di Como, sapevamo che lui lavorava per un’azienda che si chiamava Edilnova, e il titolare era Livio Bellottini - ricorda il figlio Hasan Curi - Tutti conoscevano mio papà, le persone condannate, ma nessuno diceva che era un loro operaio". I quattro figli di Zyber Curri con l’aiuto della Fillea Cgil che gli è sempre stata accanto proseguiranno la loro lotta in nome del padre.
"Nostro padre era uno che non aveva paura, era stato anche un ponteggiatore, prima di morire faceva il ponteggio magari alto anche più di cento metri. Non tutti hanno la possibilità di trovare un’azienda migliore, bisogna trovare il modo di lavorare. Dobbiamo cambiare le regole, sono passati più di sei anni, la parte penale è finita, il terzo grado ha confermato quello che ha detto il tribunale di Como, ma la parte civile non si muove. Il nostro papà da quando è morto non è stato trattato come un essere un umano, è servito finché era vivo". La speranza è che qualcosa possa cambiare.
"Sentiamo tante morti sul lavoro, se ne sentono ogni giorno, spero di mandare un messaggio ai datori di lavoro, magari uno o due li ascoltano. Sarei felice se anche un solo datore di lavoro si fermasse a dire: "Ok devo fare qualcosa. Di lavoro si deve vivere, non morire".
Roberto Canali