Eupilio (Como) – Per 27 giorni, Cristina Mazzotti fu tenuta prigioniera in una buca scavata nel terreno della cascina Padreterno, nei pressi di Castelletto Ticino. Distesa in una fossa lunga due metri e mezzo e larga un metro e 65 centimetri, meno di un metro e mezzo di profondità, dove l’aria le arrivava grazie a un tubicino di plastica di cinque centimetri di diametro.
Era il mese di luglio del 1975, e per resistere a queste condizioni, quella ragazza di soli 18 anni, veniva continuamente sedata dai suoi carcerieri, che erano arrivati a somministrarle fino a 200 gocce di Valium al giorno, assieme a numerosi altri farmaci, oltre a qualche yogurt, latte e frutta per alimentarsi. Un mix al quale la diciottenne, sempre più indebolita, al punto da non reggersi in piedi quando tentavano di toglierla da quella buca per mostrare ai familiari che era ancora viva, alla fine non era sopravvissuta.
Il suo corpo ormai senza vita, a inizio agosto era stato trasferito in una cava a Varallino, vicino a Galliate in provincia di Novara, quando la famiglia aveva già pagato un riscatto di un miliardo e 50 milioni di lire, partendo da una richiesta di 5 miliardi. Una carrozzina rossa abbandonata, indicava il punto esatto in cui era stata sepolta, e dove i suoi resti furono ritrovati la sera del 1° settembre 1975. Il giorno dopo, tutta Italia sapeva della sua morte: Cristina Mazzotti era stata la prima donna a essere rapita dall’Anonima sequestri al Nord, ma anche la prima a non fare ritorno a casa.
Le indagini svolte nelle settimane successive, avevano portato a scoprire la banda, composta anche da due donne, Loredana Petroncini, compagna di Giuliano Angelini, e Rosa Cristiano, ma senza mai trovare i soldi del riscatto. Un altro aspetto era rimasto irrisolto per anni: i nomi dei quattro uomini che la sera tra il 30 giugno e il 1° luglio 1975 bloccarono la Mini Cooper su cui Cristina viaggiava con due amici – Carlo Galli ed Emanuela Luisari – obbligandola a scendere e a seguirli dopo essere stata incappucciata, per poi cederla alla banda che l’ha tenuta prigioniera. A chiudere questa parentesi sono arrivate, trent’anni dopo, le nuove tecniche di indagine, grazie alle quali mercoledì, 25 settembre, davanti alla Corte d’Assise di Como, si aprirà il processo ai quattro ultimi imputati, ritenuti esecutori materiali del sequestro di persona.
Sono il boss della ‘ndrangheta Giuseppe Morabito, 80 anni residente nel Varesotto. Assieme a lui sono imputati Demetrio Latella, 70 anni, Giuseppe Calabrò, 74 anni e Antonio Talia, 73 anni: secondo la Procura di Milano, in concorso con le altre 13 persone già condannate in passato, “presero parte attiva e portarono a compimento la fase esecutiva del sequestro”, che si era concluso con un omicidio volontario in concorso aggravato dalla crudeltà.
Nel 2008, 33 anni dopo il rapimento, c’era stata la prima riapertura delle indagini, grazie a una impronta digitale repertata sulla carrozzeria dell’auto, rimasta isolata e a disposizione dei nuovi ritrovati scientifici. Esattamente quando la banca dati elettronica dell’ufficio centrale di Roma della Polizia Scientifica, in cui ogni giorno confluiscono centinaia di impronte digitali di persone che vengono arrestate, dopo migliaia di interrogazioni, aveva messo in relazione quell’impronta con un nome, quello di Demetrio Latella detto Luciano. Il primo processo iniziato il 22 novembre 1976 davanti alla Corte d’Assise di Novara, si era concluso con 8 ergastoli, confermati in Appello pochi mesi dopo, e con altre condanne a pene variabili. Ora rimane quest’ultimo capitolo.