Arnaldo Liguori
Editoriale e Commento

Autopsia di una passione italiana

L’automobile ha smesso ormai di essere un oggetto di status, soprattutto per i giovanissimi

Un'evocativa pubblicità degli anni Ottanta

Un'evocativa pubblicità degli anni Ottanta

L’automobile, che per decenni è stata il metro di giudizio sociale più spietato d’Italia, sta morendo non per decreto governativo (che anzi vorrebbe il paziente in salute), ma per indifferenza generazionale. I dati parlano chiaro: in Lombardia – la regione più ricca d’Italia – guidiamo auto sempre più vecchie e ne compriamo sempre meno. Il motivo ha molto a che fare con l’inflazione e l’illusione delle case automobilistiche che l’elettrica avrebbe convinto gli italiani. Ma la questione è anche culturale.

Fino a vent’anni fa, quella scatola con le ruote era il simbolo di status degli italiani. Possederne una nuova, possibilmente tedesca, significava aver fatto strada nella vita. Era un linguaggio universale che tutti capivano: quella persona lì ce l’ha fatta (o viceversa, chi guidava un catorcio non aveva raggiunto granché: vedasi il metaforico Peugeot degli 883 nel brano “Come deve andare”).

Oggi non funziona più così. Ventenni e trentenni hanno altre priorità: alle rate mensili dell’auto si preferisce l’ultimo modello di iPhone (comunque assai meno costoso) o l’ennesimo viaggio in luoghi lontani. Ma soprattutto, i più giovani hanno capito che nessuno li giudica in base all’auto che guidano. Semmai, vengono giudicati se possiedono un’auto, magari grande, costosa e inquinante.

Per la Generazione Z, il nuovo status symbol è paradossalmente non possedere nulla: viaggiare leggeri, essere sostenibili, avere esperienze piuttosto che oggetti. Forse cambieranno idea invecchiando, ma difficilmente l’auto riconquisterà il suo podio. Anche perché il vero lusso, ormai, è poter dire: “No grazie, vado a piedi”.